Visite ed escursioni
a cura del laboratorio di Tradizione Orale

 

Il mese scorso i corsisti delle “150 ore” sono andati in visita al teatro La Fenice: l’impressione è stata grande. Ha fatto da guida a quello che è uno dei più celebri teatri lirici del mondo il dott. Domenico Cardone. La sua dotta e competente illustrazione di tutti gli aspetti della “fabbrica” abbiamo cercato di riprodurre il più fedelmente possibile.

 

Siamo in campo S. Fantin, di fronte abbiamo la facciata del Teatro,
la nostra guida comincia a raccontare:

Il teatro “La Fenice”, adiacente alla Chiesa di San Fantin, è stato inaugurato nel 1792 a Venezia su progetto di Giannantonio Selva. Il nome La Fenice viene dato per ricordare il famoso teatro S.Beneto di Rialto, distrutto da un incendio. Dalle sue ceneri è risorto appunto col nome La Fenice. Secondo leggende antiche la Fenice rappresenta la resurrezione; essa era un favoloso uccello sacro agli Egizi, simile per l’aspetto ad una grossa aquila dal vivido piumaggio multicolore. La sua più straordinaria caratteristica sarebbe costituita dalla proprietà di risorgere dalle proprie ceneri dopo essere stata bruciata alla fine di un periodo di 500 anni.
Ci sono altre leggende: la Fenice secondo Erodoto volava dall’Arabia a Eliopoli, in Egitto, portando in un uovo la salma del padre per seppellirla nel tempio del sole. Secondo Tacito, invece la Fenice, fabbricava in Arabia un nido dal quale usciva la Fenice nuova, che, in seguito bruciava il padre e lo seppelliva.

Il teatro La Fenice è l’unico rimasto dei quindici edificati a Venezia al tempo della Serenissima e tutti costruiti a spese delle famiglie aristocratiche riunite in società. Potete infatti notare sul frontespizio scolpita la parola “societas”.
Aperto a tutti, era soprattutto la culla del melodramma, ma veniva anche usato per molti altri usi, come un club, luogo per ballare, giocare a carte (tipo casinò), fare riunioni anche di carattere politico, come si trattasse di una “piazza coperta”. Era anche luogo di ostentazione della ricchezza, luogo di affari e di incontri amorosi (vedi Casanova). Allora la platea, parola che deriva dal latino e significa piazza, era completamente spoglia proprio per queste ragioni, senza le poltroncine per gli spettatori come oggi appare.
La facciata è costruita parzialmente in pietra bianca di Istria, come tanti palazzi e chiese di Venezia ed è in stile neoclassico, in sintonia con la chiesa di San Fantin adiacente al teatro; al centro vi è scolpita la Fenice affiancata da due statue; quella di sinistra rappresenta la tragedia e regge un pugnale; sopra di essa è situata una maschera che piange; quella di destra simboleggia la felicità e la danza e sopra ha la maschera che ride.
L’isola sulla quale si trova il teatro La Fenice.
Come si può osservare, l’asse della facciata e quello del corpo scenico sono sfalsati per consentirne l’inserimento in uno spazio ristretto.

Siamo entrati all’interno e ci troviamo nel salone d’ingresso o “foyer”; la guida prosegue:

Le pareti del foyer sono decorate con stucchi che richiamano i motivi dell’antica epoca classica come le maschere tipiche della tragedia greca o le palme nane senza tronco; con disegni di carattere geometrico; con finte colonne che danno l’impressione di essere incassate nei muri e lapidi che riportano i nomi dei nobili costituenti la famosa “societas” fondatrice del teatro.
Non ci sono affreschi perché l’umidità, tipica della città lagunare, ne avrebbe compromesso la durata. I pavimenti sono in “terrazzo veneziano”, una sorta di mosaico fatto di minutissime tessere adagiate su una pasta tenera che, una volta asciugata e indurita, veniva accuratamente levigata.
Dai soffitti pendono pregiati lampadari in cristallo di Boemia, eseguiti in stile impero di fine Settecento ed illuminati un tempo esclusivamente da candele di cera, per la pulizia dei quali era necessario uno stuolo di servitori ed una pazienza certosina.
Dalla parte opposta del foyer ed in posizione perfettamente simmetrica, c’è un’altra entrata, alle spalle della platea e del palcoscenico. Un tempo era l’accesso riservato ai ricchi che vi giungevano in gondola, evitando quindi la fatica e la noia di camminare per le calli, percorrendo il canale adiacente. Oggi è chiusa al pubblico e serve per il trasporto degli strumenti musicali e delle scene teatrali, opportunamente smontate in piccoli colli.
Dal foyer si accede al teatro vero e proprio, la cui sala però non è in asse con l’entrata ma sensibilmente spostata verso sinistra, perché il terreno su cui è stato costruito il teatro non aveva una forma regolare.
Particolare degli affreschi del soffitto.

Giannantonio Selva, per ovviare a questo inconveniente e dare allo spettatore l’illusione dell’armonia e dell’equilibrio, ha adottato una soluzione architettonica del tutto originale: ha costruito la scalinata d’ingresso con due corpi laterali perfettamente in asse con la facciata, dando così l’illusione di trovarsi di fronte alla platea.

Siamo ora all’interno del teatro a livello della platea:

La sala interna, a forma di ferro di cavallo, è costituita dalla platea e dalle logge laterali col palco reale al centro, dalla “buca” per l’orchestra, il palcoscenico e le quinte.
La platea fino alla metà dell ‘800 non aveva poltrone fisse come oggi, ma era un’ampia sala per le feste da ballo; solo quando erano in programma gli spettacoli lirici, tra l’altro aperti a tutto il pubblico previo acquisto del biglietto, venivano sistemati gli sgabelli e le panche per gli spettatori. Anche la grande loggia reale, o imperiale, agli inizi non esisteva: al suo posto vi erano altre sei logge uguali alla altre. Questo perché all’epoca la Serenissima era una Repubblica aristocratica e quella del Doge era una carica onorata e rispettata, ma puramente simbolica; il capo dello stato poteva insomma ricevere onori e gloria ma non beni, pertanto doveva rinunciare a ogni possesso di beni materiali, ivi incluso quello di un palco personale. La loggia reale fu voluta da Napoleone, passò poi agli Asburgo con la città di Venezia e quindi, dal 1866, ai re d’Italia che vi affissero lo stemma dei Savoia; infine dal 1946 a oggi è a disposizione delle autorità della Repubblica Italiana e degli ospiti illustri della città, che ha sostituito il vecchio stemma con il leone di S. Marco.
La sala non è più in stile neoclassico, sobrio e lineare, come era in origine, perché nel 1836 fu distrutta da un terribile incendio; fu ricostruita in stile rococò, molto più ricco ed appariscente, fatto di movimento ed energia che si esprimono nelle linee curve predominanti. Per la sua ricostruzione furono chiamati i migliori artigiani di Venezia: doradori, scultori, decoratori, intagliatori, ecc. che insieme gli dettero l’attuale affascinante aspetto.
Al centro pende il maestoso lampadario di Liverpool; all’epoca era all’avanguardia perché fu uno dei primi a funzionare a gas producendo una straordinaria luce. Veniva acceso calandolo a terra attraverso un apposito meccanismo che ancor oggi si usa quando è necessaria la pulizia dei cristalli e delle lampadine.
Le logge sono tutte rivestite di legno, anche per migliorare l’acustica e in queste troviamo abbondanti decorazioni pittoriche. In particolare va rilevata l’iconografia che rappresenta le famiglie degli strumenti ed il canto. Si tratta di una serie di angioletti, ognuno dei quali regge in mano uno strumento diverso, dal flauto, alla tromba, al corno, al triangolo, ecc., che raffigura appunto il suono; ma tutti portano, legato al piede, un unico uccellino che simboleggia il canto.
Sotto ad ogni angelo, sono dipinte delle tavolette che portano scritto il titolo di un’opera lirica col relativo compositore. Si tratta di lavori scritti e musicati apposta per la Fenice che ingaggiava i più grandi artisti del tempo per avere il meglio della produzione musicale. Si nota Verdi con cinque opere: La traviata, Rigoletto, Attila, Ernani, Simon Boccanegra; Bellini con Beatrice di Tenda, Rossini con Tancredi, Zandonai con Francesca da Rimini, ecc. Inoltre, in tutto il semicerchio si notano i ritratti di svariati poeti; sono gli autori delle storie liriche, i famosi “libretti”. Si va dagli antichi tragediografi greci come Sofocle ed Euripide agli scrittori di corte in auge nel Settecento, come il Metastasio.
Nella fascia superiore delle logge sono rappresentate le arti e le scienze, come la letteratura col putto che scrive o la geografia col mappamondo. La musica appartiene a queste discipline, anzi secondo i Greci il compositore era più uno scienziato che un artista, in quanto doveva operare scelte logico-matematiche per misurare i suoni e distribuirli nel tempo.
Tra la platea e il palcoscenico vi è la cosiddetta “buca” dell’orchestra. L’idea di nascondere i musicisti al pubblico per, consentire allo spettatore una migliore visione dell’opera, venne a Wagner che la sperimentò per primo nel teatro tedesco di Bayreuth.
Lo stesso musicista, nell’800 apportò ulteriori innovazioni nel settore, aumentando tra l’altro il numero degli strumenti dell’orchestra, introducendo nuovi fiati e raddoppiando gli archi per ristabilire un equilibrio di timbri.
Attualmente i professori che suonano nell’orchestra della Fenice, naturalmente nella “buca”, sono in numero di 100. Solo il direttore d’orchestra, per poter essere visto sia dagli orchestrali che dai coristi, che normalmente si trovano in palcoscenico, sta in una posizione sopraelevata, a livello della platea.

Comincia ora un viaggio veramente affascinante, in un mondo per molti misterioso e inaccessibile, quello che è sempre negato allo spettatore.
Saliremo sul palco e poi esploreremo la parte retrostante:

Quando non è in corso lo spettacolo lirico, il palcoscenico è diviso dalla buca e dal resto del teatro non dal solito sipario in tessuto, ma da una saracinesca in materiale ignifugo chiamata “tagliafuoco” che serve a proteggere la preziosa sala da eventuali incendi che divampino dietro la quinte. Il palco è un ampio ripiano in legno che viene inclinato verso l’alto, con una regolazione precisa a seconda delle esigenze sceniche attuata da un dispositivo a funzionamento idraulico. Sopra si esibiscono i cantanti e il coro e trovano collocazione le scene prevalentemente realizzate con materiali leggeri come legno, cartapesta o polistirolo. La Fenice ne possiede molte di propria realizzazione che tiene nei suoi magazzini alla Giudecca; altre, per maggior convenienza logistica ed economica, vengono noleggiate da altri teatri italiani o stranieri.
Dietro il palco si scopre un mondo che lo spettatore abituale ignora, le quinte. È un ampio spazio sviluppato soprattutto in verticale per alcune decine di metri d’altezza. Vi sono installate le “macchine” che, azionate da appositi addetti chiamati appunto macchinisti, attraverso un sistema di argani, corde e carrucole fanno alzare o scendere sul palco le scene nei vari atti dell’opera. È inoltre la sede dei proiettori, 600 in tutto, che quaranta elettricisti dispongono su indicazione del regista, lungo apposite passerelle trasversali, avvalendosi poi di un sistema computerizzato per memorizzare le varie fasi di intervento durante l’esecuzione dell’opera.

Il mondo nascosto del teatro continua nei piani superiori dove hanno sede i camerini dei cantanti, ognuno dotato di pianoforte per le prove vocali, le sartorie, le sale per i truccatori, ecc. fino ad arrivare all’immensa soffitta dove i pittori dipingono le scene. Insomma “la Fenice” è un’impresa che con i suoi 280 dipendenti fra orchestrali, coristi, impiegati, elettricisti, attrezzisti, ecc. organizza ogni spettacolo dalla A alla Z per offrire al pubblico un prodotto finito, che in questa fabbrica si chiama opera lirica. Un prodotto, ci assicura il dott. Cardone che ci ha accompagnato in questa visita, che costa parecchio, in media un miliardo. Per questo La Fenice come gli altri 12 teatri di Stato in Italia ha bisogno di sovvenzioni dal ministero e dagli Enti Locali, altrimenti il biglietto per uno spettacolo dovrebbe costare non meno di 700.000 lire.