La Pagina di Rosetta
Dalla conferenza del prof. Filiberto Battistin del 9 marzo 2004.

di Mario Meggiato

Aristotele

 

So di non sapere, diceva Socrate e anche noi come lui, ma non dobbiamo vergognarcene perché volendo possiamo andare alla ricerca, come facevano gli antichi, di un uomo sapiente. L’ignoranza è come una malattia; quando siamo ammalati ricorriamo al medico perché, con la sua scienza, può guarirci; l’ignoranza però è la malattia dell’anima perciò dobbiamo avvalerci di un medico dell’anima: il sapiente, ossia colui che ama gli uomini e che pertanto può aiutarci a trovare la nostra strada giusta da percorrere. La sapienza, non è mai separata dall’uomo che la esprime. Ciò premesso possiamo parlare di politica e domandarci chi possa esser l’uomo politico, quali qualità debba possedere per governare: deve essere forte, nobile, ricco, bello oppure deve possedere altre qualità? Deve essere uno scienziato come il medico oppure deve possedere la scienza politica? Deve cioè saper rispondere alla domanda su cosa si debba fare per vivere bene. Se vogliamo trovare risposta allora dobbiamo rivolgerci ad un uomo sapiente, così se siamo imbarcati su una nave ci affidiamo al suo comandante se vogliamo viaggiare sereni e tranquilli verso la meta fissata.
Nella realtà attuale, quella che viviamo ora, la politica è avvertita come un ambito separato. Un ambito volontario, nel quale ciascuno di noi può entrare od uscire a proprio piacimento o addirittura non entrarci mai. Noi non ci identifichiamo con nessun ambito, nemmeno quello della politica. Un professore, ad esempio, non si identifica come uomo nel ruolo del professore, altrimenti dovrebbe comportarsi da professore anche fuori della scuola, per strada, in famiglia, con gli amici ecc. Quando fa il professore, infatti, svolge un ruolo, si comporta sulla base di regole e tecniche razionali stabilite da altri. Egli recita una parte, è un attore di un copione scritto da altri. Lo stesso dicasi per un infermiere, una maestra e così via. Ognuno svolge un ruolo sulla base di tecniche appositamente acquisite in un certo ambito. Lo strano della politica è che essa costituisce l’ambito che sovrasta tutti gli altri perché dà loro le regole necessarie al loro funzionamento. Essa cioè governa tutti gli altri ambiti e, in questo senso, si trova in una posizione di privilegio. Perché la politica gode di questo privilegio? Essa rappresenta l’ambito dove ognuno di noi si manifesta per quello che veramente è. La modernità infatti, ci fa vivere nascosti perché nessuno si mostra veramente.
Oggi ognuno di noi si mostra veramente in politica soltanto attraverso il voto (che costituisce l’elemento fondamentale del nostro modo di partecipare alla vita politica). Paradossalmente, in quel momento di massima partecipazione noi restiamo nascosti: il voto è infatti segreto.
Col voto noi eleggiamo i politici, nostri rappresentati. Il termine eletto, peraltro, è un termine ambiguo perché ci sono anche gli eletti di Dio. In ogni caso l’eletto, nel nostro intendimento dovrebbe essere il migliore, se nessuno poi, andasse a votare non esisterebbe la politica.
Col voto, in ogni caso, ognuno esprime se stesso, ma non può essere riconosciuto quando vota altrimenti il suo voto sarebbe invalidato e quindi risulta spersonalizzato proprio nel momento della sua più alta partecipazione politica. Emerge allora una grossa contraddizione: nel momento in cui l’uomo vota esprime tutto se stesso ma rinuncia alla propria identità, delegando altri. (A questo proposito gli inglesi dicevano di non essere più liberi dopo aver espresso il proprio voto).
Ciò nonostante ogni volta che si vota si rilancia la politica. Questo è ciò che accade ai moderni. Gli antichi, invece, trovavano nella politica la più totale identificazione. Solo attraverso la politica l’uomo antico trova se stesso, soltanto, cioè quando è in relazione con gli altri, tanto che Aristotele definisce l’uomo animale politico.
Diversamente i moderni, con Hobbes, hanno bisogno della teoria la quale ha come presupposto fondamentale l’inimicizia, l’isolamento nello stato di natura.
In Platone e la conoscenza di sé il prof. A. Biral metteva in evidenza questa radicale differenza precisando, appunto, che gli antichi greci consideravano la politica l’atteggiamento che coincideva con la ricerca di sé ossia quell’atteggiamento che parte dall’osservazione del nostro modo di agire.
Ognuno agisce in vista del meglio che corrisponde anche al bene; in questo senso entra in comunicazione con gli altri. L’agire per il meglio non costituisce una scelta, infatti nessuno agisce per il peggio; ognuno, infatti, agisce per il meglio perché vuol essere felice: lo stesso S. Agostino riconosce questa fondamentale esigenza nell’uomo. Per gli antichi la comunità espressa dalla Polis ha come fine la vita buona e felice. Gli uomini, dunque, vivono per essere felici e la politica secondo Aristotele ha questo fine essa perciò è la scienza più importante. Chi si pone fuori dal meglio, chi si pone fuori dalla Polis perde se stesso. L’uomo quando raggiunge la felicità è realizzato, diversamente è un uomo mancato. Se è realizzato si trova in piena salute dell’anima. Per la Grecia antica, allora, la scienza del meglio, la politica, non costituisce un ambito separato ma, al contrario, tutta la vita è politica intesa come relazione fra tutti gli uomini, alla ricerca del meglio.
La politica, peraltro, richiama un altro elemento: il governo, meglio ancora il governo di noi stessi. Ciascuno di noi ha, infatti, consapevolezza di essere un insieme di passione e ragione, od anche di istinto e ragione, anima e corpo, di essere composto di un dualismo che può produrre anche contrasti; ognuno di noi ha allora la misura delle proprie azioni (migliori/peggiori).
L’uomo dunque coincide con le proprie azioni e le nostre azioni ci rivelano per quello che veramente siamo: esse ricadono anche su noi stessi, tanto che se agiamo male ne risentiamo. In sostanza i greci antichi avevano una direzione, quella della felicità, un senso che nessuno ha mai deciso (Aristotele).
Hobbes ha invece realizzato il toglimento del principio e del fine (la felicità) togliendo, di conseguenza, anche il senso della vita. Egli infatti sostiene che la vita non ha senso: la modernità è razionalità; la vita è movimento e la morte è la fine del movimento; la morte è allora il male più grande dal quale perciò vogliamo distinguerci: altro non c’è. A questo punto entra in gioco la scienza, che si concretizza come volontà di potere contro la natura e contro noi stessi.
Gli antichi non avevano paura della morte poiché il fine era la felicità o condizione divina, fuori dal tempo, fine a se stessa.
La felicità consisteva nel non aver bisogno di nulla, nemmeno della vita, ciò che più contava era essere giusti.
In Hobbes invece, la principale preoccupazione è quella di accumulare potenza acquisendo differenze quantitative.
Se identità vuol dire essere felici, vivendo con gli altri, in modo da rendere gli altri e noi stessi migliori, i veri uomini politici sono coloro che si prendono cura di realizzare la vita buona; il suggerimento di Biral consiste nel chiederci continuamente chi siamo e come agiamo, questo può essere l’autentico atteggiamento politico, giacché ogni azione è sempre un’azione politica.

 
 
Il gonfalone rosso dorato della Serenissima Repubblica di S. Marco, ha origini assai remote.
Le formazioni militari lo adottarono sin dal 1204, nell’assalto alle mura di Bisanzio (tale azione è raffigurata in una tela di Palma il giovane, nella sala del Maggior Consiglio, a Palazzo Ducale).
Il Leone era “stante” cioè seduto, con il libro aperto e la spada ben eretta tra le zampe, la scritta “PAX TIBI MARCE” in occasioni di importanti battaglie navali veniva sostituita con le parole “IN HOC SIGNO VINCES”. In seguito il leone “andante” (in piedi) prese definitivamente il sposto di quello stante.
 
 
Fu concessa nel 1761 la licenza ad un tale Giovanni Zivoglis di “fabbricare dei fazzoletti, come si usano nelle Indie, e portati anche dalle donne dello Scià di Persia…”.
Nacque così lo scialle veneziano, in seta o in tessuto leggero, chiamato “zendado”, o in lana pesante detto “lenzuoletto”.
Inizialmente fu dei più svariati colori e più o meno riccamente decorato; solo nel 1848 quando la città dichiarò il suo lutto per i caduti nella lotta di insurrezione, assumerà il tradizionale colore nero. La denominazione “scialle” si vuole derivata dalla parola “scià” appunto, di Persia.