Racconti
Una lezione di vita.
di Giacomo Soldà

A una mia carissima amica, è stato conferito un riconoscimento letterario, ed io, con in tasca una delega, sono andato a Roma per ritirarlo in sua vece.

 


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Persone senza dimora.



 

 

 

 

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In una tarda sera di fine inverno, mi scrollo d’addosso il piovigginoso e appiccicaticcio buio romano e entro nella stazione Tiburtina. Mi immergo nella fredda luce fluorescente irradiata dalla soffittatura composta da quadrati di vetro smerigliato; di marmo grigio, striato da fasce nere, è invece la pavimentazione tirata a lucido dove si specchiano cartacce seminate alla rinfusa.
Un brusio convulso stordisce, mentre percuote i timpani la metallica voce dell’altoparlante che quasi incessantemente annuncia arrivi e partenze. Gente si muove frettolosa nell’atrio, al centro del quale una chiassosa schiera di giovani, trincerata dietro zainetti, orgogliosamente ostenta la bandiera spagnola che troneggia nel mezzo, sembra l’ultimo baluardo del generale Caster attorno al quale galoppano freneticamente i viaggiatori Sioux. Vicino alla macchinetta fai da te si addensano alcuni individui alquanto scocciati perché, quel nuovo ritrovato della tecnologia moderna, risputa al mittente le banconote che mani sempre più spazientite cercano di far ingoiare in cambio di un biglietto ferroviario. Paradossalmente, invece, è vuota la zona sportelli dove solo due sono aperti, ed è là che io, viaggiatore di vecchio stampo scettico alle innovazioni, mi dirigo. L’impiegato si desta dal torpore nel quale sembra rifugiato e, forse gratificato di sentirsi ancora utile, senza ch’io lo chieda, mi informa anche dell’ora di partenza e del numero del binario sul quale transiterà il convoglio per Venezia.
Ora, con il biglietto in tasca sono più tranquillo, anche se piuttosto stanco, cerco quindi un posto dove stare a mio agio e ingannare per un’ora Cronos.
Il Mc Donald non mi attrae proprio, anche perché ho già cenato ad una tavola calda con bucatini all’amatriciana. Non riuscirò mai ad emanciparmi. Pazienza! Opto per un caffè al banco del bar, poi cerco un posto dove potermi sedere e starmene tranquillo. Per farlo, però, devo aprire gli occhi su tutto ciò che, come gli altri, tento di ignorare: la degradazione umana, il naufragio della speranza, vedere i relitti che il crudele mare della vita arena su quella spiaggia che è il perimetro interno della stazione ferroviaria di una metropoli. File di sedie, prive di braccioli e unite tra loro, contornano l’arca adibita a sala d’attesa o meglio a dormitorio, i più fortunati sono stesi su quattro sedie, quelli meno, rannicchiati su due. Istintivamente mi chiedo se vale la regola del chi primo arriva oppure se anche tra loro esiste una gerarchia sociale. Monotono il programma trasmesso dal monitor sulla parete, la sequenza delle partenze e la composizione dei convogli non interessa nessuno di loro, da tempo ormai viaggiano sul treno della rassegnazione.
Nei pressi della rampa di gradini che scende al tunnel d’accesso binari, individuo un’altra di quelle file di sedie concatenate di cui una, all’estremità è vuota. Allontano i sensi di colpa e egoisticamente la usurpo; finalmente sistemato, chiudo gli occhi e rivivo quel pomeriggio trascorso nella capitale.
A una carissima amica, per me molto importante, è stato conferito un riconoscimento di finalista ad un premio letterario, ed io, con in tasca una delega, sono venuto a Roma per ritirarlo in sua vece.
Mentalmente rivedo la grande sala dove sono avvenute le premiazioni: tavolini rotondi con candele nel mezzo, attorno ad essi gente elegantemente agghindata; sul palco, illuminato come la vetrina di un gioielliere, un lungo tavolo dietro al quale siedono i componenti della giuria di cui lo speaker ufficiale della manifestazione elenca i titoli e le cariche che ricoprono. Non meno blasonati alcuni personaggi presenti nella sala che si alzano per riscuotere l’applauso quando vengono menzionati: accademici, scrittori, giornalisti, politici. Anche i premiati, quando salgono sul palco, vengono invitati a nominare l’editore per cui lavorano, le testate sulle quali scrivono e a spiegare il messaggio che con la loro poesia vogliono trasmettere.
Mi sento a disagio in quel mondo così sofisticato, io che ho trascorso una vita nei cantieri navali di Porto Marghera e indosso un vestito sgualcito da sei ore di viaggio in treno in uno scompartimento per fumatori.
All’uscita della manifestazione, macchinoni e taxi; la mia vettura, modestamente, è la più grande di tutte: il 211 che mi porta al capolinea stazione Tiburtina senza nulla dire all’autista.
Riapro gli occhi su questa diversa realtà che ora mi circonda e osservo il barbone che, a parer mio, rischia di essere calpestato poiché è seduto sotto i tabelloni di arrivi e partenze che i viaggiatori consultano; di sicuro, però, la sua opinione è diversa dalla mia e tranquillamente sta mangiando con la testa semi immersa in un sacchetto di plastica come il cavallo del vetturino col contenitore di biada appeso al collo.
La sedia alla mia sinistra è occupata da un tascapane in juta, sulla successiva giace ciò che resta di una donna. Non posso vederla in faccia perché seduta in posizione che solo una marionetta posata da un burattinaio può assumere, mancano solo i fili, per il resto è completamente ripiegata su se stessa con il viso tra le ginocchia e le braccia che penzolano; ha capelli biondo rossicci che da mesi non devono conoscere la carezza di un pettine. Sulle sedie oltre lei, delle ragazze di colore discutono animatamente tra loro, indossano la divisa professionale che scopre abbondantemente le rotonde cosce. Per l’atrio vagano due suore di bianco vestite tranne il pullover celeste e le scarpe nere. Una delle due zigzaga irrequieta bloccandosi di tanto in tanto per scrutare ogni angolo come se tenesse tutto sotto controllo. La seconda, più corpulenta e più anziana, la segue a fatica come un cane indolente; tiene in mano delle coroncine di rosario simili a quelle che nel mese di maggio ambivo come premio, quando ragazzo studiavo dalle suore dorotee. Svolgono la loro missione tra i derelitti. Questa notte, in una francescana cella, si addormenteranno soddisfatte del loro operato; malignamente penso: “Dopo una calda cena e tra linde lenzuola”. Poi rivedo la mia opinione su di loro, in fondo almeno tentano di fare qualcosa che io, incallito contestatario di sinistra, non faccio. Chiacchierando tra loro, due agenti di polizia trascinano la loro ronda. Intanto, il barbone dei tabelloni orari che ha terminato la sua cena senza essere calpestato, si alza, s’avvicina alla pattumiera, e vuota il contenuto del sacchetto di plastica che tiene in mano, poi, meticolosamente, ripiega il sacchetto e lo intasca. Torna sui suoi passi facendomi l’occhiolino e sorridendo; vista la sua disinvoltura, lo osservo senza imbarazzo. Srotola una stuoia da spiaggia che stende per terra con accuratezza, come se i quattro angoli di quel rettangolo di paglia dovessero coincidere con quattro punti che solo lui vede sul pavimento. Prima di stendersi sulla stuoia, scioglie lo spago che lega il pacco di giornali con cui si copre, inizia dalle gambe secondo un ordine chiaramente collaudato. Non credo sia il caso a determinare quale sarà l’ultimo foglio con cui si copre il viso, su di esso, a caratteri cubitali, spicca il titolo della testata: LIBERO. In un protettivo abbraccio tiene sotto le ascelle due voluminose borse che ovviamente racchiudono tutta la sua roba, poi resta immobile. Mentalmente gli invio un messaggio: “Buonanotte amico, mi sei simpatico”.
Solo allora mi accorgo che, a un paio di metri davanti a me, si staglia la sagoma di un uomo di statura notevole che sembra fissarmi senza vedermi. Indossa un giubbotto nero che a dir logoro è poco, ha una lunga e incolta barba nera chiazzata di grigio; da sotto un cappellino di tela blu con frontino, cola la lunga chioma che scende fino alle spalle. L’età è indefinibile: tra i quaranta e i cinquant’anni, forse. E’ un bell’uomo dal profilo greco, con una ripulitina potrebbe tranquillamente competere con Poseidone. Mette per terra il tascapane che stava sulla sedia accanto alla mia e si siede. La bionda ripiegata su se stessa non si è mossa di un millimetro. Poseidone fruga nelle sue tasche ed estrae un po’ di spiccioli che conta e riconta, poi si rivolge a me e con voce roca mi chiede: Hai venti centesimi da darmi ?
Penso che gli servano per comperarsi da bere e mi chiedo se è giusto darglieli, ma la richiesta è così modesta che una qualsiasi giustificazione per non soddisfarla sarebbe ridicola. Avutoli, si alza e si allontana dopo aver riposto il tascapane sulla sedia. Senza lui in mezzo, posso vedere ancora la bionda, la sua immobilità mi preoccupa.
Un quarto d’ora dopo ritorna Poseidone. Quando si avvicina, distinguo cosa porta a due mani: un piatto fondo di plastica con del riso fumante; mi vergogno di averlo considerato un alcolizzato, la voce roca è stato un fattore sviante.
Nell’aula magna della stazione Tiburtina, e per soli venti centesimi, ho assisto ad una lezione di vita sul tema: “Altruismo e Amore”.
Il dio del mare rimette per terra il tascapane per poggiare sulla sedia il piatto di riso, si inginocchia davanti alla bionda e le accarezza i capelli: nessuna reazione. Prende allora una cucchiaiata di riso che avvicina al viso di lei dal basso, tra le ginocchia; quell’ispido biondo cespuglio sembra lievitare, e, come se l’invisibile burattinaio avesse ripreso in mano i fili, lei lentamente si erge sul busto e poggia le mani sulle ginocchia. Finalmente la vedo in volto, un viso senza tempo, scavato da sofferenza interiore; può avere trent’anni come cento. Non vedo il colore dei suoi occhi, sono fissi in quelli di Poseidone che, come si fa con i bambini, sfiora con il cucchiaio quelle labbra esangui per indurla ad aprire la bocca e depositarvi con dolcezza il riso; e così, cucchiaiata dopo cucchiaiata, con una delicatezza che contrasta con la rude immagine che quel colosso d’uomo lascia immaginare. Non una sola parola tra i due, infine lei rifiuta il riso volgendo il capo di lato; Poseidone allora si alza e trangugia ciò che rimane nel piatto che poi va a buttare nella spazzatura. Quando ritorna, la sua bionda compagna si è riaccartocciata su se stessa. Lui allora si sfila il giaccone per poggiarglielo sulle spalle, sotto indossa una strana nera camicia: un sacco dell’immondizia con un foro per la testa e due per le braccia. Si siede tra me e lei che, pigramente, alza un braccio per posargli la mano su un ginocchio, mano che lui avvolge sulla sua mentre sembra fissare un punto sospeso oltre il luminoso soffitto dell’atrio.
So di non poter attribuire ad un’infreddatura, causata dalla mia breve passeggiata nella piovigginosa sera romana, quel nodo che mi attanaglia la gola e quel fastidioso malessere agli occhi. Anche se, come viene segnalato sul monitor, mancano una ventina di minuti alla partenza del mio convoglio (proveniente da Napoli e diretto a Trieste), capisco che è il momento di andare prima che gli occhi mi lacrimino. Scendo allora la rampa di gradini soffermandomi sull’ottavo. Seminascosto, posso voltarmi a spiare per l’ultima volta la corte dei miracoli che a quell’ora è la stazione Tiburtina.
Lentamente percorro il tunnel che passa sotto le rotaie paragonando tra loro due mondi che si ignorano e dove in entrambi mi sono sentito un intruso. Quello dove si riscuote l’applauso a scena aperta, quello della coppa d’argento, quello dove é un vanto se un proprio articolo viene pubblicato da un giornale. L’altro, invece, dove afflosciate su se stesse le marionette sognano che il siparietto si rialzi per rivivere, quello della scodella di riso, quello dove i giornali sono lenzuola ricamate con piombo e antimonio. Due mondi così diversi, anche se con uguali coordinate spazio temporali.
Al binario 19 riemergo nel mio universo.
Nello scompartimento buio di un treno che viaggia nella notte, penso ancora a Poseidone e lo invidio. Vorrei saper dare anch’io a chi amo ciò che lui dà alla sua compagna: “TUTTO”.