Per non dimenticare
(riduzione a cura di Mario Meggiato)*

Questa intervista ad un reduce della campagna di Russia durante la Seconda guerra mondiale, è stata realizzata dal Corso di Creatività filmica diretto da Stelio Fenzo. Il risultato è un video che sarà presto presentato al pubblico nell’ambito delle iniziative di Luned’Arte.
Per ragioni di spazio siamo costretti a ridurre il contenuto del colloquio; sperando di non avere omesso dei passaggi importanti, ci scusiamo di ciò con il nostro amico Gino.


Alpini in Russia


Buonasera
Buonasera signora

Senta signor Gino, ci può dire quando è nato…
18 settembre 1916

E dove?
A Venezia

A Venezia e… ecco il 28 ottobre del ‘40 lei era a Venezia, cosa faceva?
Il 28 ottobre del ‘40?

Sì, quando hanno dichiarato la guerra…
Ero a Trieste

A Trieste, già arruolato quindi...
Sì già arruolato, non ero militare di carriera, ero di leva

Nella Julia sempre?
No, a Trieste ero della Caserma Sanità, dopo mi hanno mobilitato e sono andato con la Julia, all’ospedale 630 del battaglione Vicenza della Julia. Fra l’altro neanche il Ministero della Guerra sapeva che c’era il 630, quanti eravamo e quanti siamo tornati: per loro, siamo spariti completamente.

Quando siete partiti sapevate che il vostro equipaggiamento non era adeguato?
No, no!

Cosa vi avevano detto? Dove pensavate di andare...
Ci avevano detto che dovevamo andare in guerra, ma non sapevamo che avevamo le scarpe di cartone, che non avevamo impermeabile, che non avevamo da dormire... eravamo tutti ignoranti e non sapevamo che le guerre fossero tutte uguali... il nostro sogno, anzi il mio, perché non posso parlare per gli altri... sono stato un po’ scioccato quando ho visto l’esercito tedesco così bene organizzato. Avevano belle divise, stivaletti, generi alimentari e comodi rifornimenti. Fui stupito perché pensavo che razza di guerra dovevamo fare noi. In dicembre, con un gelo pungente, dicevo ai soldati di non sedersi se sentivano i loro piedi intorpidirsi, ma di continuare a camminare, perché i loro piedi avrebbero potuto congelarsi. Malgrado il mio consiglio, qualcuno si fermava e si congelava i piedi. Allora si usava la pomata anticongelante. Ma quanta strada a piedi!

Questo in Russia!
Pensi che gelava il vino, noi andavamo a prendere il vino con un sacco.

Ma voi quando siete partiti per...
Noi partimmo in giugno con tutto il battaglione....

E cosa vi immaginavate di trovare, cioè la Russia per voi che cos’era?
Della Russia neanche se ne parlava perché nessuno ci insegnava, nessuno ci diceva nulla, sapevamo che era un Paese freddo, ma non così come lo abbiamo trovato. Non sapevamo nulla perché neanche a scuola ci avevano insegnato nulla, quanto fosse grande e cosa c’era.
Non sono nato in campagna e non sapevo neppure cosa fossero i muli.
Nel ‘41 siamo arrivati nei pressi del fiume Don. Il grano era ormai maturo e sembrava un mare d’oro... che bello! Non avevo mai visto una cosa simile! Non ero mai stato prima in campagna. C’erano i covoni alti e essiccati. Il grano era vigilato dai soldati tedeschi.

Invece quando siete arrivati in Grecia, che situazione avete trovato? Questo era prima della Russia, vero?
Ci siamo trovati bene perché la gente non era ostile. Il cibo era scarso, ma noi eravamo abituati a tirare la cinghia.

Quanto tempo siete stati?
Eh, non tanto... Prima di rimpatriarci ci hanno mobilitati e mandati in Russia.

Direttamente dalla Grecia alla Russia?
Sì.

E dalla Grecia alla Russia come siete arrivati? In treno?
In treno, ma il viaggio non finiva mai. Comunque quello che posso dire è che non eravamo ben organizzati e non eravamo stati nemmeno istruiti.

Che lavoro faceva prima di partire per la Russia?
Facevo il merciaio.

Per cui da “marser” a combattente.
Quali sono stati, in Russia, i momenti che ricorda come i più drammatici o peggiori?
Uno dei momenti più drammatici è stato quando mi persi. Un giorno che eravamo al fronte, arrivò un motociclista per avvertirci di scappare al più presto perché eravamo circondati. Ci mandarono quattro camion, tre erano per gli ufficiali e il quarto lo affidarono a me e a un sergente maggiore. In Grecia ero stato promosso sergente e poi in Russia sergente maggiore, non per atti di eroismo ma per le mie favorevoli note caratteristiche. Partimmo verso una località chiamata Popov che si trovava sopra una collina. Per oltrepassare questa collina ai mezzi di trasporto vi si dovevano montare le catene, ma i nostri camion non erano dotati di catene e quindi non riuscimmo a superare il dislivello. Gli altri soldati volevano buttare i nostri camion nella scarpata perché intralciavamo la ritirata. Ci costrinsero a tornare indietro e di accodarci. Dovevamo partire per ultimi. Ma come dicevo prima, non ci siamo riusciti. Nelle vicinanze vi era un’isba. Decidemmo, assieme ad altri quattro soldati, di fermarsi nell’isba e ripartire la mattina seguente. Da mangiare avevamo gallette e scatolette. Non pensavamo che alla mattina dopo accadesse una rottura del fronte così totale. La mattina seguente decidemmo di raggiungere la piana di Popov e di ricongiungersi con gli altri. Fra noi c’era un addetto all’inquadramento truppa, io invece ero in fureria e quindi tutti e due dovevamo recarci sul posto perché c’erano dei documenti da prelevare. Al mattino dicemmo ai soldati di stare nell’isba che poi saremmo tornati a prenderli... e invece chissà dove sono andati a finire.
Finché stavamo camminando per raggiungere la piana di Popov, passò un camion leggero sopra il quale c’erano dei soldati e chiesi loro di darci un passaggio. Ad un certo punto del percorso vidi un maialino che si era perso, scendemmo per prenderlo e attorno scorgemmo elmetti zaini…, c’era stato un bombardamento. Mentre stavamo guardando per capire cos’era successo scorgemmo un carro armato bianco che cominciò a sparare nella nostra direzione. Mentre il camionista ingranava la marcia, noi ci aggrappammo al camion per sfuggire ai colpi di fucile. Purtroppo qualcuno rimase a terra colpito. Il nostro camionista, che non era un vero camionista ma si arrangiava a guidare, credendo di sfuggire al carro armato, entrò in un vicolo che a lui sembrava buono e invece si impantanò nella neve alta e non ne venne più fuori. Fummo costretti ad uscire sulla strada e ad proseguire a piedi. Il sergente maggiore aveva salvato un bottiglione di cognac, cognac che noi davamo ai feriti e io gli raccomandavo di non berlo perché eravamo digiuni. Ma lui pensava fosse un rimedio per il freddo e ne beveva tanto, tanto da ubriacarsi.
Questo sergente maggiore era stato in un convalescenziario per diciotto anni! Aveva un tumore... ed era di Rovigo. Non potevo caricarmelo sulle spalle, non avevo forza sufficiente per farlo. Proprio in quel momento passò un carro slitta di rumeni. Tra un po’ di russo e italiano ci siamo fatti capire. Abbiamo detto loro che era ammalato, che era ubriaco, lo abbiamo messo sopra la slitta ed io sono rimasto solo e a piedi.

Quanti gradi sottozero eravate?
Tanti. Lo sputo diventava subito una pallina di ghiaccio.
Come le dicevo sono rimasto solo e a piedi.

A piedi?
Ogni tanto mi attaccavo a qualche slitta. Ad un certo momento non si andò più avanti. Tutte le slitte erano ferme e allora chiesi: “Cos’è successo che non si va più avanti?’
“Non si può passare il ponte” mi venne risposto.
“Perché?’ chiesi io.
“Perché ci sparano da dietro le case di questo paese.”
C’era in atto una specie di rivolta da parte degli abitanti. Abbiamo sperato che venisse qualcuno a liberarci. Dopo un pò di tempo arrivò tre carri armati tedeschi, cominciarono a sparare alle finestre e la situazione si capovolse in nostro favore.
Salii sopra ad un carro armato, non dentro, fuori. Dopo aver percorso una certa distanza sentii che continuavano a sparare nella mia direzione e mi son detto: “Non mi conviene rimanere qui”, e saltai giù. Dopo poco, vidi delle persone venir fuori da una specie di chiesa (le chiese erano state abolite da Stalin e le usavano come deposito di materiale, salami, roba da mangiare insomma) “boia cane” dissi; e intanto che guardavo passarono due soldati italiani con un slittino e dissi loro: “andiamo dentro a prendere qualcosa da mangiare e la carichiamo sul slittino”. E così fu fatto.

Era roba dei russi, chiaramente.
Mah! Deve esser stata rumena. Rumena, non era russa. No! I russi non avevano tanti depositi e se fosse stata merce tedesca, i tedeschi avrebbero portato via tutto. I tedeschi facevano strage nelle case, nei depositi.

E quanti, quanti chilometri ha fatto quindi a piedi?
Eh’ penso di aver camminato per una settimana.

Quanti giorni, una settimana, e come...
Ma di più non avrei potuto andare avanti.

E dormire, mangiare come, come faceva?
Avevo con me tre salami, mi sono trovato da solo e con la paura di incontrare i lupi.

I lupi?
Si, ma di lupi non ce ne dovevano essere, pensai, perché non c’era bosco. Comunque rimaneva la paura di trovarne. Bussai alla porta della prima isba che vidi con il camino che fumava, (isba si chiamano le povere case dei contadini) ma questi non mi aprirono, avevano paura. Allora, ho pensato bene di prendere il fucile per la canna e ribussai. Con questo gesto hanno capito che non ero un malintenzionato.
Mi aprirono la porta, mi fecero entrare, mi rifocillarono con un po’ di latte e mi fecero riscaldare vicino alla stufa. Tutti mi chiesero, in particolare i vecchi, da dove venissi, se fossi sposato e mi dissero di rimanere lì. Riuscimmo a scambiarci poche parole. Mi dicevano quando finisce la guerra te ne vai a casa.

Ma la città comunque era abbandonata dalla popolazione?
No! C’era della gente probabilmente nelle isole e nei villaggi. I tedeschi hanno fatto delle stragi. Hanno buttato bombe a mano, ammazzavano persone che poi buttavano nei pozzi artesiani. In questi pozzi l’acqua veniva portata alla superficie tramite un bastone a cui era legato un secchio di legno. Quando si accorgevano che dentro a questi pozzi artesiani c’erano dei cadaveri, scrivevano sulla porta di casa o sul muro, “TIFO”.
Per dissetarsi conveniva mangiare la neve e questo è stato anche il motivo per cui molte persone hanno perso tutti i denti.

Senta mi pare che eravate partiti in 300.000, in quanti siete tornati?
Credo 150-160 mila circa, la metà.

L’alpino Gino preso dai tedeschi, insieme ad altri soldati, fu inviato prima a Trieste, in una zona vicino ai confini con la Jugoslavia e dopo l’otto settembre venne inviato in Germania vicino a Dresda. Dopo un breve periodo di lavori pesanti riprese la sua attività di infermiere (in Russia faceva parte del reparto sanità).
Finalmente con una colonna di profughi poté salire in un camion di soldati americani e tornare in Italia. Non fu accolto come un eroe; solo nei pressi di Bassano le fu dato una bella ciotola di fagioli. Rientrato a Venezia la sua vita non fu facile: l’esperienza di merciaio non gli servì a molto. Con l’aiuto di un cognato poté partecipare e vincere il concorso di vigile urbano: finalmente una vita dignitosa! Egli conserva tuttavia il ricordo del freddo e della fame patita e dei compagni caduti lungo la strada del ritorno.

L’intervista termina qui e la ringraziamo per il tempo che ci ha dedicato.

Da questa intervista emerge che la guerra di Gino è stata assurda, come tutte le guerre, combattuta da persone ignare e voluta da uomini dominati da volontà di potere, causa di tanta sofferenza e tanti lutti.

“Gli eserciti marciano sempre al servizio delle classi dominanti”.
(Don Lorenzo Milani)