la pagina di Rosetta
Che cos’è la bellezza?
Francesco Lamendola

Prolusione del prof. Francesco Lamendola in occasione dell’apertura annuale dell’Orto Botanico Locatelli a Mestre (Venezia), presso il Parco della Bissuola, in collaborazione con l’Associazione Eco-Filosofica (già Associazione Filosofica Trevigiana), mercoledì 3 maggio 2006.


 

Le piante e la bellezza: un argomento molto seducente, ma anche molto, molto sfruttato; e, quel che è peggio, molto in voga, il che vuol dire facilmente soggetto a scivolare sul piano inclinato della banalità e dei luoghi comuni più triti e scontati. Cominciamo quindi da una salutare opera di demolizione della nostra presunzione di sapere, riconoscendo, con Karl Jaspers, che molta della nostra pretesa conoscenza è solo una forma di non sapere mascherata e imbellettata secondo le mode del momento e la pigrizia intellettuale di chi preferisce contrabbandare le parole per cose, onde risparmiarsi la fatica di pensare veramente. E incominciamo dal concetto di bellezza, che tutti crediamo di possedere solo perché se ne parla tanto, ma quasi sempre a sproposito. Che cos’è, dunque, la bellezza? Che cosa intendiamo, quando diciamo che qualcosa è bello?
Prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo risalire ancora un po’ più indietro. Infatti, quantomeno nella cultura occidentale, il concetto di bellezza nasce come una manifestazione della bellezza corporea: sono i corpi, infatti, che possiedono l’attributo della bellezza. Per gli antichi Greci, che erano letteralmente ossessionati dalla bellezza fisica, il requisito del kalòs (in latino, pulcher) era inseparabile dalle virtù che rendono un essere umano degno di ammirazione. Possiamo immaginare che Achille non fosse bello? Che non fosse bella, anzi simile a una dèa, la leggiadra Nausicaa? Viceversa, Omero ci dice esplicitamente che Tersite, “il più tristo dei guerrieri Achei” impegnati sotto le mura di Troia, era brutto e deforme, oltre che vile e maldicente. È solo con Platone, tra V e IV secolo avanti Cristo, che si comincia a parlare, per analogia, di una bellezza dell’anima, concetto prima inesistente nella mentalità ellenica; e il Cristianesimo, da questo punto di vista, ha trovato veramente il terreno già preparato dai filosofi neoplatonici, da Plotino in modo particolare. Ma anche Platone considerava la bellezza dei corpi come propedeutica alla rivelazione della bellezza spirituale; nemmeno Platone seppe tagliare di netto il binomio indissolubile bellezza/virtù (implicante, per contrasto, quello di bruttezza/empietà); e il Cristinanesimo, mano a mano che si platonizzava (o, se si preferisce, mano a mano che il platonismo si cristianizzava), ne seguì l’esempio.
Col Rinascimento, l’antropocentrismo implicito tanto nella mentalità greca classica, quanto in quella cristiana (e sia pure con diverse sfumature) sfociò in una nuova mistica della bellezza corporea, divenuta il paradigma di ogni forma di bellezza. Il corpo nudo di Cristo appeso sulla croce è un pretesto per sfoggiare tutte le risorse artistiche, tutte le conoscenze anatomiche, tutta l’esaltazione estetizzante di una legione di pittori il cui vero scopo è la glorificazione pagana del corpo decontestualizzato e, per così dire, despiritualizzato. Come in Paolo Uccello il paesaggio diviene un pretesto per celebrare le leggi della “divina” prospettiva, cioè della matematica, così in Raffaello (e, per la scultura, in Michelangelo) il corpo sofferente di Cristo è un mero pretesto per celebrare l’ideale estetico del kalòs. La cosa è ancor più evidente in quei soggetti, come San Sebastiano trafitto dalle frecce, in cui la figura umana, spogliata e isolata da ogni contesto realistico, viene colta con una particolare tonalità patetica che non esclude robuste venature di sadismo e voyeurismo, quasi a voler punire (psicanalisti, sbizzarritevi!) quei giovani corpi di una così disarmante e conturbante bellezza. (Bellezza e crudeltà: il marchese de Sade non è stato che la punta dell’iceberg; si pensi al Giardino dei supplizi di Octave Mirbeau, del 1898, epoca d’oro del decadentismo estetizzante: ma le sue premesse ideologiche non risalgono proprio al Rinascimento?).
Ora, se la bellezza è percepita, in prima istanza, come bellezza dei corpi, bisogna domandarsi cosa sono i corpi nella cultura occidentale. Meglio: occorre domandarsi come vengono inseriti nel quadro della conoscenza. Ebbene, a questo punto una sorpresa ci attende: i corpi vengono visti, non solo dal senso comune ma anche dalla maggior parte della storia della filosofia, come enti la cui esistenza è realmente fondata fuori del soggetto percipiente. Ossia, noi siamo qui; i corpi sono lì, di fronte. Se chiudiamo gli occhi per qualche minuto e poi torniamo ad aprirli, i corpi sono ancora dov’erano prima: ergo, esistono indipendentemente da noi.
Ma le cose, a ben guardare, non stanno proprio così. I corpi non hanno un’esistenza reale, bensì formale: esistono nei nostri sensi che li percepiscono e nella nostra coscienza che unifica le percezioni. Noi non conosciamo i corpi, ma dei dati sensoriali che potrebbero anche fondarsi sull’inganno di un diavoletto dispettoso, come temeva Cartesio, o, più semplicemente, su un puro e semplice abbaglio, come nel caso dei miraggi. Il viandante smarrito nel deserto crede di vedere, nell’infuocato orizzonte tremolante di calore, città, palmeti, distese d’acqua: ma non vi è nulla di simile in realtà; e il miraggio si allontana all’infinito, quanto più il viandante gli si fa incontro. Per dirla col buon vecchio Kant: noi conosciamo i fenomeni, qualcosa che è nella nostra mente; non i noumeni, qualcosa che esisterebbe fuori di noi e indipendentemente da noi. Lasciamo perdere, in questa sede, il fatto che Kant abbia continuato a oscillare fra una concezione positiva e una concezione negativa del noumeno, ora considerandolo come il sub-strato reale della nostra conoscenza del mondo, come un fondamento inevitabile e necessario; ora come una possibilità puramente teorica, della quale nulla si può dire se non che la sua esistenza effettiva è inesperibile e che il mondo, quale noi lo sperimentiamo, è solo ed esclusivamente quello del fenomeno. In questa seconda accezione, evidentemente, il noumeno kantiano non è altro che il caput mortuum della filosofia del pensatore di Königsberg, qualcosa di simile alla “ghiandola pineale” nella filosofia di Cartesio: un dato che dovrebbe spiegare tutto, o almeno rendere possibile l’esistenza di tutto, ma che è fatalmente tagliato fuori da ogni possibilità non solo di verifica, ma anche di necessità logica. Tralasciamo per ora la questione: quel che importa, è che l’orizzonte gnoseologico dell’Occidente (non quello dell’Oriente induista e buddhista, per esempio) rimane fermamente ancorato, nonostante Kant, all’idea che se facciamo l’esperienza quotidiana dei corpi che ci circondano (compreso il nostro), ciò presuppone che quei corpi abbiano un’esistenza non solo formale, ma anche sostanziale, in accordo col senso comune, secondo il quale i corpi esistono anche quando noi non li percepiamo, anche quando noi siamo altrove. (Ma attenzione, il senso comune ci dice anche che il Sole sorge e tramonta, mentre la Terra sta ferma; e in nome del senso comune il sistema copernicano venne inizialmente ostacolato e condannato dalla Chiesa cattolica).
Dicevamo che le cose non stanno così: e non solo perché, in accordo con la lezione di Berkeley e di Kant, nulla possiamo dire sui corpi in sé stessi, neanche il loro colore (vedi il caso del daltonico), la loro temperatura (vedi l’esperimento della mano immersa alternativamente nell’acqua calda e fredda), per non parlare della loro valenza estetica (che è sempre relativa). Ma anche per un altro ordine di ragionamento, e cioè per il fatto che i corpi, tutti i corpi in quanto tali, proprio per il fatto di esistere nello spazio e nel tempo (ammesso che esistano) sono radicalmente impermanenti. Infatti il corpo che ho di fronte ora, prima di chiudere gli occhi, non è lo stesso che avrò di fronte al momento di riaprirli, e sia pure fra un solo secondo. Tutto scorre, diceva Eraclito: non ti puoi bagnare due volte nella stessa acqua. Impercettibilemte ma inesorabilmente, i corpi subiscono le modificazioni del tempo e dello spazio. Ogni nove anni, tutte le cellule del corpo umano subiscono un processo di totale rinnovamento, sicchè, nel corso di una vita umana, noi diveniamo, alla lettera, più e più volte, altro da quello che eravamo, altri rispetto al nostro corpo precedente. “Dell’uomo ch’ero un tempo, non rimane quasi più niente”, scrive Cesare Pavese nel racconto Gli anni. La credenza nella permanenza dei corpi è un’illusione della coscienza, che unifica le diverse percezioni secondo i binari a lei noti della realtà apparente: inserendo, per così dire, il pilota automatico che le permette di aggrapparsi all’idea che le cose sono sempre lì, sempre a nostra disposizione.
Questa credenza nasce, in realtà, da una doppia illazione: che i corpi siano sempre uguali a se stessi e che in noi vi sia un principio unitario, la coscienza appunto, capace di esperirli sempre allo stesso modo, secondo categorie percettive e mentali uniformi. La seconda illazione è radicalente contestata, ad esempio, dal Buddhismo Theravada, secondo il quale noi non abbiamo un io, ma un complesso di idee e percezioni sempre cangianti. La prima è stata sottoposta a critica da filosofi come Severino, i quali fanno notare che esiste, tutt’al più, un unico corpo continuamente soggetto a molteplici trasformazioni. L’albero, per fare un esempio, non si limita a cambiare aspetto nel corso del tempo, dalla giovinezza alla vecchiaia; esisteva anche prima di essere albero, sotto forma di seme; ed esisterà anche dopo essere stato abbattuto e bruciato nel fuoco, sotto forma di cenere, e così via ad infinitum, nei due versi della scala temporale, il passato e il futuro. Ma se l’albero era un tempo qualche cosa di diverso dall’albero, e se verrà un tempo in cui l’albero sarà ancora qualche cosa di diverso da se stesso, ciò significa che tutti i corpi sono collegati, intrecciati, indissolubilente compenetrati nello spazio e nel tempo; e i loro confini, fisici e temporali, sono apparenti e illusori, cioè, appunto, impermanenti.
Queste riflessioni, benchè sommarie rispetto alle loro implicazioni, erano tuttavia necessarie per sgomberare il campo da molti equivoci. Perciò possiamo ora affermare: primo, che i corpi, se pure esistono, sono impermanenti; secondo, che l’ammirazione tributata alla bellezza dei corpi, in quanto legata a una loro particolare condizione nello spazio e nel tempo, è fondata sul misconoscimento della loro impermanenza, dunque è profondamente illusoria; terzo, che se non vogliamo cadere nell’errore del prigioniero della caverna nel mito platonico, scambiando le ombre delle cose per le cose stesse, dobbiamo sforzarci di vedere la bellezza non nei corpi, ma attraverso i corpi e, in un certo senso, a dispetto dei corpi. Detto in altre parole, dobbiamo recuperare la seconda vista che ci consenta di vedere la verità interiore delle cose, adombrata dalle apparenze più o meno seducenti, ma ingannevoli dei corpi. Dobbiamo aprire il terzo occhio e recuperare la facoltà, a noi concessa da una fonte di conoscenza superiore all’umana, di rapportarci alla realtà non come corpi tra corpi, ma come anime tra anime, anzi come parti illusoriamente separate dell’unica Anima Universale.
Ed eccoci alle piante. Da sempre esse costituiscono un ausilio prezioso alla valorizzazione e alla conservazione della bellezza del corpo. E ciò sia per mezzo dei prodotti cosmetici naturali, sia con la loro stessa bellezza, accostata alla bellezza del corpo, specificamente del corpo femminile:

 
La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
 

Così Giacomo Leopardi ne Il sabato del villaggio, e non si poteva dir meglio con altrettanta squisita semplicità.
C’è stato un tempo, ed è durato dalla cosiddetta preistoria sino alla civiltà contadina del secondo XX secolo, in cui le piante erano conosciute, e utilizzate, come dispensatrici di medicine naturali e come coadiutrici di bellezza: erano le amiche e le compagne dell’uomo e, oltre all’uso alimentare (e a quello cerimoniale), sorreggevano la salute e l’igiene del corpo. Quasi tutti ne conoscevano le proprietà e sapevano come servirsene, in corrispondenza con le fasi lunari e con gli influssi astrologici; poi, poco alla volta, tale sapere è rimasto appannaggio di una ristretta schiera di “specialisti”, uomini e donne del popolo che avevano conservato l’antico legame e lo trasmettevano come un geloso segreto, di generazione in generazione. Infine è arrivata la modernità e, con essa, la medicina accademica come valore assoluto ed autoreferenziale, e contemporaneamente l’abbandono delle campagne da parte dei giovani: due fenomeni, apparentemente lontani, che hanno ugualmente concorso alla rottura definitiva del legame di continuità fra l’essere umano e l’utilizzo spontaneo, popolare delle proprietà curative e cosmetiche delle essenze vegetali. Il sapere tradizionale legato al mondo delle piante è andato smarrito, almeno a livello delle comunità, ed è oggi interamente confinato nelle erboristerie commerciali, ove però è costantemente insidiato dai meccanismi della farmaceutica industriale, che tendono a snaturarlo e volgerlo definitivamente nel solco delle attività economiche e produttive.
Quanto alla bellezza, oggi sembra trionfare l’ideale standardizzato ed enfatico di una perfezione estetizzante perseguita con caparbia determinazione attraverso pratiche sempre più invasive, culminanti nella liposuzione, nella chirurgia plastica, nel trapianto di capelli, nell’abbronzatura artificiale, nel potenziamento muscolare ottenuto mediante l’ingestione di steroidi e anabolizzanti. Il tutto in una specie di gara senza limiti di buon gusto e di convenienza con il naturale processo di invecchiamento, gara in cui un grosso ruolo viene giocato da un abbigliamento forzatamente giovanilistico, in cui le madri e le nonne vogliono competere con le figlie e le nipoti sul loro stesso terreno, quello dell’adolescenza, rinunciando quindi alle risorse del fascino per puntare tutte le carte su una sensualità ostentata e brutalmente seduttiva.
Una riscoperta del concetto di fascino e un ridimensionamento del concetto astratto di bellezza fisica dovrebbero passare attraverso un ripudio delle cure estetiche invasive, basate sulla chimica e sulla chirurgia, e un ritorno alle tecniche naturali, basate sulle essenze vegetali. Ciò andrebbe anche nella direzione della riscoperta di quella verità interiore, senza la quale non vi è autentica bellezza; verso la riapertura di quel perduto “terzo occhio”, che ci renderebbe capaci di vedere, e apprezzare, la bellezza celata dietro le apparenze dei corpi. Il fascino non ha età, la bellezza fisica sì; il fascino è una sintesi di bellezza interiore ed esteriore, ed è la risultante di molti e svariati fattori: tra essi il buon gusto, la finezza, la discrezione, l’intelligenza, la cultura, la semplicità, la naturalezza, l’armonia, l’equilibrio, l’apertura, la disponibilità e… il senso del mistero. Sì, perché il fascino è sempre un po’ misterioso; perché misteriosa è la natura dell’anima, di cui il fascino è la finestra aperta, o meglio socchiusa, sul mondo dei sensi. Il fascino è intrigo, sottigliezza, allusione; è parlar sottovoce, giocare con lo sguardo, suggerire il non detto. Il fascino è consapevolezza del mistero e rispetto di esso: cioè di una zona che non potrà mai essere completamente esplorata, esplicitata, rivelata. Il fascino sa essere infinitamente superiore alla bellezza provocante e grossolanamente materiale; è fatto di sottintesi, di complicità, di discrezione.
Ora, il senso del mistero è, insieme al senso del limite, la principale caratteristica dello spirito religioso. Sapere che non tutto può essere svelato e sapere che non tutto deve essere fatto, anche se potrebbe essere fatto: questo contraddistingue l’homo religiosus; non il seguire questa o quella dottrina religiosa, il praticare questi o quegli altri riti e cerimonie. La conclusione del nostro ragionamento su “piante e bellezza” è dunque un invito a tornare alla semplicità e naturalezza delle piante, per ritrovare il senso di una bellezza intimamente affascinante, che è bellezza interiore e non puramente fisica; ed è impegno e responsabilità personale nella gestione del “fenomeno bellezza”. Perché la bellezza, come tutti i doni, richiede maturità nell’uso che se ne fa, e coscienza del suo potere ma anche dei suoi limiti. Molti possono essere belli, ma pochi sanno essere affascinanti, molti ostentano la bellezza (propria o delle proprie cose: gioielli, vestiti, ecc.), ma pochi la sanno vivere con senso di responsabilità e con rispetto di sé e dell’altro. L’altro, che non è solamente un corpo da turbare, da conquistare, da sottomettere; e il proprio io, che non è solamente uno specchio ove riflettere, narcisisticamente, il proprio potere tirannico esercitato mediante la seduzione sistematica di tutti e di ciascuno. Ci sono persone che non sanno vestire la propria bellezza, come vi sono persone che non sanno portare i propri abiti, per quanto esageratamente eleganti e costosi. Persone che si muovono goffamente con tutta la loro bellezza, come su dei tacchi troppo alti; persone che la bellezza si porta a spasso, mentre loro non sanno portarla perché soffocano la disinvoltura dietro formule di comportamento standardizzate e omologanti.
Anche nel campo della bellezza, come in quello della medicina, dell’ecologia, dell’economia, della politica, c’è bisogno di una presa di coscienza, di un ritorno alla saggezza perduta, di una riconquista della nostra dignità di singoli (per dirla con Kierkegaard) che non vogliono più essere massa, che vogliono smettere di essere prodotti fabbricati in serie.

Francesco Lamendola è nato a Udine nel 1956. Laureato in Materie Letterarie e in Filosofia, è abilitato in Lettere, in Filosofia e Storia, Filosofia e Pedagogia, Storia dell’Arte, Psicologia Sociale. Insegna nell’Istituto Superiore “Marco Casagrande” di Pieve di Soligo, di cui è vicepreside. È presidente della Libera Associazione Musicale “W.A.Mozart” di Santa Lucia di Piave. Ha pubblicato una decina di volumi, tra cui “Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C.”, “Il genocidio dimenticato. La soluzione finale del problema herero nel sud-ovest africano”, “Metafisica del Terzo Mondo”, “L’unità dell’Essere”, “La bambina dei sogni e altri racconti”, “Voci di libertà dei popoli oppressi.” Collabora con numerose riviste scientifiche (tra cui “Il Polo” dell’Istituto Geografico Polare e “L’Universo” dell’Ist. Geogr. Militare) e letterarie, su cui ha pubblicato oltre un centinaio di articoli. Tiene conferenze per la Società “Dante Alighieri” di Treviso, per l’”Alliance Française”, per l’Associazione Italiana di Cultura Classica, per l’Associazione Eco-Filosofica, per l’Istituto per la Storia del Risorgimento e per varie Amministrazioni Comunali, oltre alla presentazione di mostre di pittura e scultura. Alcuni suoi lavori sono reperibili sui siti Internet: http//www filosofia.tv e www.museopolare.it