Per non dimenticare
1943: la fuga in Svizzera di una famiglia di ebrei veneziani.
di Alba Finzi

Come da tradizione ormai consolidata, anche
quest’anno la scuola ha ricordato la Shoah.
Testimone è stata la signora Alba Finzi che, giovanissima, fu costretta dalle persecuzioni fasciste messe in atto dopo la proclamazione delle leggi razziali ad una angosciosa
fuga verso la Svizzera.
Il racconto, commosso e commovente, di quella terribile avventura, è stato accompagnato dalle note del complesso musicale Samarcanda che, con grande perizia e partecipazione, ha eseguito musiche klezmer e della tradizione ebraica.


Il prof. Gabriele Stoppani
presenta il gruppo musicale Samarcanda.

 

Il complesso musicale Samarcanda esegue
musiche klezmer.

 

Foto Finzi.

 

La notte del 5 dicembre 1943: fuga in Svizzera.

Cinque giorni dopo la partenza da Venezia (30 novembre 1943) eravamo in marcia nascosti dal buio e vicini ormai alla zona di confine tra l’Italia e la Svizzera.
Da ore camminavamo, stavamo per superare una collina e la salita tra sterpi e arbusti era molto faticosa.
Il sacco sulle spalle, la donna di mezza età che ansimava appesa al mio braccio, io mi trovavo in ultima posizione, sudata, i capelli appiccicati. Un ramo secco, poco tempo prima, mi aveva strappato il berretto di lana ch’era rotolato per la scarpata come un cerchio rigido.
Non conoscevo la signora che con le mani mi teneva stretta e con i piedi scivolava in continuazione; avevo incontrato il gruppo di anziani che stavano arrancando insieme a noi, quando ero arrivata con mio padre e mia sorella nella casa dei contrabbandieri, ultimo rifugio prima del “passaggio” della frontiera.
Eravamo giunti in quella casa verso sera, come concordato; in mezzo al tavolo del grande locale d’entrata una immensa terrina fumante, colma di riso.
- Mangiate, mangiate! Chissà quando potrete mangiarne ancora!- Una donna con un petto enorme e un occhio bendato in nero come un corsaro, l’aria furba, ma anche materna, offriva in giro ciotole piene; dirigeva tutto e tutti e annunciava a mio padre:- Sarete in compagnia dei signori Levi (una coppia di cinquant’anni con i vecchi suoceri) e con voi verrà anche mio figlio, il più giovane, che deve evitare i continui rastrellamenti di controllo.-
Mio padre …, beh, poco importa se mio padre pensava che non si corre molto in compagnia di quattro vecchi. Non aveva scelta: questo donnone era il “collegamento”, questi montanari erano le persone pagate per guidare la fuga.
A prendere gli accordi con loro era stato l’ingegner Franceschini, l’amico che abitava in una bella villa di Brunate, sopra Como.
Il papà, proprio perché l’ingegnere era un amico, non avrebbe voluto rivolgersi a lui, che aveva la fortuna di vivere vicino al confine, per non metterlo in pericolo. Fu l’incubo di Milano a deciderlo. Arrivati da Venezia, da due giorni dormivamo nei sotterranei della Stazione Ferroviaria, in terra, tra centinaia di persone ammassate. Con la scusa che quello era un rifugio antiaereo c’erano sfollati di tutti i tipi; c’erano soldati sbandati; ma soprattutto c’erano ebrei in fuga e il numero delle persone che cercavano un nascondiglio continuava ad aumentare. C’era anche – arrivato un giorno dopo di noi,- il nostro Rabbino, il Rabbino Ottolenghi vecchio e cieco. Solo alla fine della guerra sono venuta a sapere che il Rabbino aveva voluto tornare nella sua città, dai suoi vecchi della Casa di Riposo. Con loro, pochi mesi dopo fece l’ultimo viaggio verso Auschwitz.
In quei due giorni, i primi di dicembre, mio padre aveva febbrilmente cercato una soluzione; scappare in Svizzera non era più tanto semplice, anzi, “le porte” erano tutte chiuse perché la Svizzera non ce la faceva ad accogliere ancora gente e più il tempo passava più tutto diventava difficile.
Disperato, fece allora la telefonata a Brunate, al suo Amico, e subito dopo tutti e tre da una stazione secondaria salimmo sul treno per Como. (Di nuovo in questo breve viaggio, come da Venezia a Milano, il timore di ispezioni e il “miracolo italiano” di un ferroviere che, attraversando in fretta il vagone con un uomo in divisa fascista, dice: - Questi li ho già controllati io!-. Tutti noi, anche le contadine sedute di fronte a me con ceste pesanti sulle ginocchia, abbiamo respirato di sollievo.)
Arrivati a Como siamo montati sulla funicolare che sale a Brunate e sembravamo tre sfollati dalla città che scampavano ai bombardamenti.
E finalmente la casa calda e accogliente, le persone meravigliose; un’oasi di sicurezza e di benessere e un letto morbido su cui dimenticare la grande stanchezza.

L’Ingegnere amico ci aveva dotati di uno zaino a testa per mettere le cose che avevamo in valigia e adesso che era notte fonda, erano ore che avevamo lasciato il casolare dei contrabbandieri, ore che camminavamo, facendo attenzione a star lontani da strade e da sentieri e cercando di non far rumore.
Salite e discese e ancora salite; i due accompagnatori e il ragazzo conoscono bene i luoghi. Sembra di aver arrancato per chilometri, quando, accompagnata da una risata una voce urla:
VI ABBIAMO SCOPERTO !-.
Ho il sudore che mi scende sugli occhi e mi fermo. Verso l’alto intravedo un uomo enorme in divisa: è a gambe larghe sulla cima del dosso che stavamo scalando. Vedo anche che mio padre fa cenno al signor Levi e si affretta insieme a lui fino a raggiungere l’omone; mi accorgo inoltre che siamo restati soli; accompagnatori e ragazzo sono spariti nel bosco che ci circonda.
Mentre il militare ci osserva con la sua pila, sento un improvviso peso sul braccio e capisco che la signora Levi, pur restando ancorata a me, è svenuta. Passano attimi, minuti; cerco di tener sollevata la donna, mentre il vecchio suocero la schiaffeggia.
-Non si tratta di “brigate nere”! – spiegano sottovoce i due capifamiglia tornando verso il gruppo,- Ma di guardie di confine, doganieri; è bastato pagare “il pedaggio”, (gli “ultimi ori” di mio padre e del signor Levi: un anello, una catenina, un po di soldi) e se ne sono andati!-.
Ci sorridono ambedue, sono rassicuranti. Il signor Levi viene a sostenere la moglie e cerca di farla riposare su un sasso. Intanto il buio restituisce le nostre guide che, invece di scusarsi, incitano a far presto perché –dicono – il pericolo non è l’incontro con “quei morti di fame”, ma con i tedeschi e i cani che stanno pattugliando il confine.
Giungiamo finalmente sulla cima di quel colle e sentiamo abbaiare molto vicino.
Gli accompagnatori ritengono prudente spingere tutti verso un campo acquitrinoso, i piedi a mollo “per disperdere l’odore dei corpi”. Lì ci fanno fermare, raccomandando l’immobilità più assoluta.
Con nostra grande meraviglia, guardando lontano, oltre una certa linea, al di là della vallata, c’è tutto un brillare di luci, come se non esistesse il coprifuoco e non ci fosse la guerra.
É la Svizzera! La salvezza!.
Quel silenzio e quelle luci sembrano un paesaggio non vero e non raggiungibile.
Un rumore rompe l’attesa; stanno passando, e sono a poca distanza da noi, alcune persone con i cani: I TEDESCHI.
Ancora cinque-dieci minuti e tutto il gruppo si rimette in cammino procedendo in fila indiana; in mezz’ora arriviamo sul sentiero che costeggia la rete di frontiera.
Con grande velocità i due contrabbandieri più giovani, usando una tenaglia, trinciano il fil di ferro alla base della rete, mettendo in opera il sistema di campanelli d’allarme che collega tutta la linea. Alzano con forza lo squarcio, ormai non badano più alla prudenza, e dicono a tutti di far presto, di rotolare di là, di compiere di corsa i duecento metri della terra di nessuno, perché è uno spazio in cui tedeschi e fascisti hanno il diritto di sparare.
Io sono già dall’altra parte, aspetto per vedere se tutti riescono in quella manovra da contorsionisti: non è facile con cappotto e sacchi; ma tutti finalmente sono passati. Poi papà mi dice di sbrigarmi; mi affretto. E mentre corro, improvvisamente, guardando in alto, mi accorgo che la notte è meravigliosa; una notte piena di stelle.

Percorse poche centinaia di metri dal confine, siamo fermati da due uomini in divisa e ascoltiamo con sgomento le prime parole in lingua francese: - Non si entra più; l’ufficiale vi rimanderà indietro! La Confederazione non ha più spazio per ricevere rifugiati. Camminate, ora.-
Mentre camminiamo, guardano meglio il gruppo e indicando i quattro Levi, i due militari sentenziano: -Questi quasi certamente resteranno.- la loro voce è gentile – Sono anziani. Ma voi no, voi tornerete indietro.-
-Come? Di notte? – siamo atterriti. Io parlo, chiedo. I due soldatini sono della Svizzera francese; giovani di leva; da poco tempo sono di turno alla frontiera: -Non si fanno più eccezioni; - spiegano- già dal primo dicembre sono state riaccompagnate alla rete parecchie persone; non si passa più. Adesso vi portiamo fino al luogo di raccolta; avrete un brodo caldo. Poi, domattina, sarete ricondotti al confine.-
Arriviamo al posto di blocco, che è un grande camerone di legno affiancato da un ufficio in muratura, dove militari e graduati stanno bivaccando.
Il camerone è pieno di gente; alcuni sono distesi in terra e dormicchiano, altri stanno parlando tra loro o si guardano di traverso. Si capisce che tutti sono arrivati stanotte, proprio come noi.
Qualcuno porge gentilmente una tazza di brodo caldo. Ora tutti e tre spersi nel mucchio stiamo vivendo l’ultimo tempo della lunga notte con grande angoscia. Non riusciamo a pensare. Dopo tanta fatica, il risultato sembra senza speranza.
Quando si fa giorno viene distribuito caffè con pane e tutti sono avvertiti di aspettare con pazienza il turno per l’interrogatorio.
É una tortura.
Chi ha finito esce da un’altra parte e così non si sa quali domande facciano, quali documenti sono necessari, quali criteri seguano nello scegliere chi resta.
É il nostro turno.
Papà ha con sé pochi documenti per comprovare ciò che ora lui sta dicendo all’ufficiale. Sono carte che, senza parole compromettenti, fanno riferimento a Venezia, alla famiglia, al suo lavoro, agli studi delle figlie; sono i biglietti della linea ferroviaria Venezia-Milano. Tutte carte non pericolose nel caso fossimo passati per un controllo fascista; altro non potevamo portare.
L’ufficiale, vecchio militare, non ha dubbi su quanto mio padre sta raccontando. “Però – egli legge un foglio – le disposizioni del comando sono precise: fino ai quindici anni accertati e oltre i quarantacinque si possono ancora fare strappi: Lia, ha quindici anni e perciò dopo la quarantena andrà sotto la protezione della Croce Rossa e lui, ha quarantotto anni e perciò verrà messo in un campo di lavoro per anziani, come i quattro Levi appena passati. Deve essere contento: su un gruppo di tre, due membri saranno accolti e solo io verrò riaccompagnata ad un “passaggio” ben protetto dove avrò la certezza di salvarmi.”
Papà continua a parlare; chiede di prendere il posto della figlia; al deciso diniego, afferma che allora anche lui tornerà con me alla frontiera.
L’ufficiale si alza e c’è una pausa interminabile. Ora l’ufficiale è al telefono e noi, malgrado siamo seduti in silenzio, non sentiamo le parole che pronuncia. Minuti eterni di attesa; poi torna con passo veloce dietro il tavolo e da lì, guardandoci negli occhi, -Siete accolti tutti e tre!! – dice, e sembra contento anche lui. –Teniamo conto che lei è padre di Lia, una minore; questa per legge deve restare.-
L’incubo è finito: finalmente ci sentiamo in salvo. Da lì a poco ci mettiamo in cammino a piedi, in fila, sotto la scorta dei soldati e, insieme a tutti gli altri passati in quella notte, andiamo verso il nostro primo campo di raccolta.

NOTA: Siamo stati fortunati. Veramente fortunati. Molti tra coloro che hanno tentato di raggiungere la Svizzera in quei giorni, centinaia di persone, non ce l’hanno fatta e il loro destino è stato tragico: presi dai fascisti o dai tedeschi furono portati prima a S.Vittore, la prigione di Milano, poi ad Auschwitz: non ce l’hanno fatta tutti quelli che si sono fidati di accompagnatori disonesti che, dopo aver ricevuto la somma (molto sostanziosa) che ad ogni persona veniva richiesta per il passaggio, li consegnavano ai tedeschi intascando così anche la taglia che pendeva sul capo di ogni ebreo (lire 5.000 se si trattava di un uomo; lire 2.000 per ogni donna; 1.000 ogni bambino); e non ce l’hanno fatta i molti che, credendosi già in salvo, furono invece riportati dagli svizzeri alla frontiera, perché rientrassero in Italia. Quasi tutti finirono nelle mani dei tedeschi.

Alba Finzi Vianello è nata a Venezia.

Nel 1938, a causa delle leggi razziali che esclusero dalle scuole pubbliche tutti i giovani di origine ebraica, è obbligata ad abbandonare la sua classe e le sue compagne. Dai primi mesi del 1939 può continuare e terminare il corso dei suoi studi nella scuola secondaria approntata dalla Comunità Ebraica tra grandi difficoltà, in un edifìcio del centro cittadino.
Alla fine del 1943 si rifugia in Svizzera con il padre e la sorella per sfuggire ai tedeschi che dall’8 settembre occupano da padroni tutta l’Italia centro-settentrionale.
Rientra in Italia nel 1945 e si iscrive alla facoltà di medicina di Padova. Mentre frequenta il terzo anno, viene incaricata di far funzionare, in Ghetto, la Scuola Ebraica, per raccogliere e riportare alla normalità i ragazzi superstiti e sbandati che dopo la Liberazione erano ritornati alle loro case.
L’esperienza eccezionale di quegli anni ha influenzato la sua scelta di lasciare medicina per dedicarsi all’insegnamento.
Ha collaborato alla stesura dell’Inserto Didattico di “Riforma della Scuola” e ha fatto parte per anni della redazione di quella rivista.
Si è occupata dell’insegnamento della Matematica e ha partecipato, in vari seminari, all’elaborazione del programma per l’inserimento dell’insiemistica nella Scuola Primaria.
Ha fatto parte del gruppo, ospite della Cittadella di Assisi, che operava per diffondere l’educazione musicale nella scuola. (Seminari estivi rivolti agli insegnanti).
Al Magistero dell’Università di Padova, negli anni ottanta, ha fatto parte di un gruppo di ricerca e di verifica sul rinnovamento della Scuola Italiana.
Ha insegnato per un decennio al British School. Questa esperienza l’ha portata ad interessarsi e ad approfondire la didattica dell’insegnamento multilingue nella Scuola Primaria.