Toponomastica
a cura di Aldo Ghioldi

URBIS GENIO (alla divinità della città),
si incideva nella pietra dei palazzi veneziani del XV secolo.
L’architettura non era innalzata a
solo vantaggio e vanagloria di un committente o di un progettista, l’architettura doveva essere orgogliosamente dedicata alla
città, alla sua essenza generatrice.

 


Marco Moro.
San Nicolò dei Mendicoli, 1860.
Immagine estratta dal sito Internet: www.webalice.it/zanverdiani/storia.htm.


La vicina Chiesa dell’Angelo Raffaele.
Immagine estratta dal sito Internet: www.italiadiscovery.it/immagini/news.

 

 

San Nicolò dei Mendicoli è luogo significativo nella storia della Serenissima. Estrema ramificazione a sud est della città, non solo la concludeva con l’insediamento monastico di Santa Marta, fondato nel 1315, ma originariamente la prolungava, anzi quasi la univa con la terraferma tramite un sottile banco sabbioso e boscoso, il Ponte o Punta dei Lovi (lupi), definitivamente distrutto nel 1509, quale pericolosa minaccia all’inviolabile isolamento insulare, in tempo di drammatici eventi bellici.
Ma era soprattutto la Venezia del popolo e delle origini, della pesca e della vita in laguna, che trovava in questa contrada l’elemento cardine di quella struttura civile che, nella convivenza dei diversi ceti, favoriva la concordia sociale e permetteva il durare della Repubblica. Le sagre di Santa Marta che, illuminando le calde notti di fine luglio e d’agosto, vedevano accorrere patrizi e cittadini facoltosi, a mescolarsi con gli umili abitanti, per gustare le sogliole appena pescate e direttamente cucinate sulla spiaggia. I pescatori, custodi delle secolari conoscenze sui delicati equilibri idrodinamici della laguna, godevano inoltre di tale considerazione in materia, da venire di norma consultati dalle magistrature venete e dai loro tecnici, come il celebre Cristoforo Sabbadino (1489 - II metà XVI sec.), grande protagonista degli studi e degli interventi per la regolazione delle acque, ma anche del rinnovamento urbano rinascimentale, con progetti anticipatori di futuri sviluppi. La comunità di San Nicolò, unita alla gemella dell’Angelo Raffaele, godeva di particolari e simbolici privilegi, attraverso la figura del suo gastaldo, il Doge dei Nicolotti. Essa si contrapponeva simmetricamente ai Castellani del capo opposto della città, sede della Cattedrale di San Pietro di Castello, dando vita alle note e spesso cruente battaglie sui ponti. Certo mendicoli, cioè bisognosi e quindi doppiamente protetti dal patrono, ma anche riconosciuti nel proprio ruolo dal potere politico e partecipi del cerimoniale laico dello stato. Il ceto popolare degli abitanti della contrada non impediva tuttavia, in uno sforzo condiviso, di mantenere ed arricchire il proprio tempio, simbolo religioso di una orgogliosa compagine sociale frutto del lavoro e delle fatiche di ogni giorno, che concretizzavano nel mattone e nella pietra una civiltà millenaria, una storia unica ed irripetibile.
Il nucleo parrocchiale della Mendigola è infatti antichissimo. Tralasciando le testimonianze d’epoca romana, la tradizione ne fa risalire la fondazione alla Venezia del VII-VIII secolo, mentre le prime notizie certe si riferiscono all’anno 1160. Vetustà d’insediamento che l’accomuna alla vicina chiesa dell’Angelo Raffaele, che vanta una prima documentazione certa risalente al 1193, in occasione di una ricostruzione dell’edificio.
L’originaria struttura urbana dell’area, come osservabile nelle testimonianze cartografiche, dalla pianta prospettica del de’ Barbari ai catasti ottocenteschi, mostra infatti un probabile remoto nucleo isolato, costituito da un semplice tessuto edilizio, prevalentemente organizzato in corti e guidato, nella sua articolazione, dagli affacci sulle direttrici acque: gli attuali rii di San Nicolò – Angelo Raffaele, delle Terese e posteriormente, presso la fondamenta dei Remurchianti, il rio ora interrato dell’Arzere, che scorreva lungo il perimetro dei bassi fondali ad ovest della città.
L’iconografia veneziana settecentesca, mostra come la concezione di forma urbis, elaborata senza soluzione di continuità nei secoli dalla Serenissima, prevedesse, quale praticata soluzione terminale per le insule allungate, un insediamento conventuale con ampie aree d’orti. Basti pensare al Canale della Giudecca, con i complessi di San Giovanni Battista e San Biagio, entrambi scomparsi ed in qualche modo sostituti: l’uno verso San Giorgio da una caserma con area verde, l’altro dalla mole con torre del Mulino Stucky.
Tra i molti altri esempi si può ricordare il monastero del Corpus Domini, sul Canal Grande, all’estremità ovest di Cannaregio, presso l’attuale scalo ferroviario di Santa Lucia, per sottolineare come purtroppo proprio in queste aree marginali si siano spesso concentrate le peggiori devastazioni postnapoleoniche, fino agli attuali, mai paghi di far danni, emulatori.
Infatti nella stagione della cosiddetta Venezia industriale postunitaria, da alcuni chissà perché definita la grande Venezia, si attuò la cancellazione fisica di gran parte dell’edilizia minore dei Mendicoli, operazione proseguita in periodo fascista. Ad essa si unì la chiusura ed il celamento di quanto sussisteva, quasi ad umiliare e nascondere soprattutto un’antica identità civile, con il conseguente, inevitabile degrado sociale.
Al 1882-83 è datata la prima insanabile interruzione nel tessuto urbano, dovuta al complesso del Cotonificio Veneziano (ora sede IUAV), una sorta di diga di mattoni e calcestruzzo, che isola e condanna alle demolizioni la punta di Santa Marta, racchiusa tra di essa, l’ex Campo di Marte ed i nuovi interramenti per la banchina portuale contemporaneamente realizzati.
Questi interramenti, avanzando di molto il margine della città verso il Canale della Giudecca, permisero la realizzazione dei Magazzini Generali, entrati in attività soltanto nel 1896, ma con lavori iniziati nel decennio precedente. Mentre dal lato opposto, rispetto al Cotonificio, s’interrò lo specchio d’acqua, o sacca, prospiciente l’insula di San Nicolò, che scorgiamo ancora accogliere velieri alla fonda in una litografia di Marco Moro, databile a metà dell’Ottocento.
Si eliminarono, inoltre, gli importanti squeri dell’Angelo Raffaele sul canale della Giudecca, retaggio dell’antica ed ancora attiva ed anzi già modernizzata, arte degli squerarioli: alcuni complessi proto-industriali che con le loro teze e le indefinite e sfrangiate rive digradanti verso il canale, per un verso costituivano un ulteriore simmetrico richiamo a Castello, con i suoi squeri sul bacino, per un altro, ancora alla fine del XIX secolo, erano l’elemento urbano più caratteristico di tutta l’area, la quale, votata alla vita in rapporto con l’acqua, non poteva, evidentemente, avere con essa limiti troppo netti. I nuovi spazi così ottenuti, anche grazie ad ulteriori demolizioni lungo la riva sud di rio di San Nicolò, permisero la realizzazione dei magazzini del Punto franco, in costruzione nel 1889 ed aperti nel 1892.
Tra il 1924 ed il 1930, l’Istituto Autonomo Case Popolari concluse l’edificazione del nuovo quartiere residenziale di Santa Marta, completando la tabula rasa delle superstiti abitazioni dei Nicolotti, a ponente del cotonificio, lungo calle dello Stendardo. Nel secondo dopoguerra, dietro la chiesa dell’Angelo Raffaele la mole fastidiosa ed opprimente di alcuni condomini, venne innalzata a celare in gran parte il tempio. Nel medesimo periodo San Nicolò, venne invece visivamente cancellato, verso il Canale della Giudecca, dallo squallore utilitaristico dei magazzini frigoriferi, realizzati sull’area parzialmente ottenuta da altre demolizioni di storici edifici civili ed in luogo di magazzini di minore entità presenti, a partire dal 1913 circa, sul citato interramento dello specchio d’acqua, presso il suggestivo campiello dell’Oratorio.
Su questo non solo si affacciano tuttora un’antica scoletta (Oratorio di San Filippo Neri) tipicamente insediata in posizione angolare, il campanile e parte del perimetro delle navate della chiesa, ma anche un caratteristico, piccolo giardino veneziano, perfetta estensione e complemento del costruito circostante. Un luogo questo singolare, dall’atmosfera sospesa, dentro la città e fuori di essa, senza negozi, locali, insegne, in cui domina il solo dialogo tra l’acqua e le pietre millenarie. Prima del 1925 il sito era arricchito, oltre il rio, da un interessante esempio di edilizia minore, due case gemelle secentesche con abbaini, che rivolgendo il loro prospetto principale verso lo slargo acqueo, invece che sulla prossima e suggestiva prospettiva di rio dell’Angelo Raffaele, ne confermavano le qualità di ambiente urbano solidamente configurato, che si concludeva, verso la Giudecca, con un presumibile giardino all’italiana illustrato dalla pianta topografica (1846-56) dei Combatti.

Cambiano i tempi ma non le logiche speculative.

Recentemente è stata prospettata l’edificazione di una nuova sede IUAV di fronte a S. Nicolò, sull’ex specchio d’acqua, con la quale si ripropone, anzi si accentua, la medesima voglia di cancellazione, di seppellimento della storia, della cultura, di offesa ad un luogo, alla sua architettura ed alla sua identità. Ma, forse, non tutto il male viene per nuocere, l’abbattimento dei magazzini frigoriferi, unito al probabile abbandono del dannoso progetto, offre una grande occasione, quella di contrapporre all’oblio mortale del calcestruzzo, un progetto di rinascita.
Si profila concretamente la possibilità, rara a Venezia se non unica, di creare uno spazio aperto al contempo gradevole e funzionale alla vita degli studenti. Questi, per lunghe ore, vivono con il corpo segregato in stanzoni illuminati da luci al neon, respirando pura aria condizionata, mentre la mente s’imprigiona in un’altra scatola, quella virtuale del computer, i cui infiniti orizzonti digitali sono gli unici che riescono ancora a vedere e che forse si vuole vedano. Ci si accorge infatti che quasi nessuno osa ormai guardare da una qualsiasi finestra, naturalmente ermeticamente chiusa; nessuno osa tanto meno guardarsi attorno, mentre percorre come un automa quegli invisibili binari che lo conducono alla sede universitaria, dove altri muri provvedono ad evitare che, per errore, possa voltarsi e vedere. Constatata la progressiva dismissione di ogni pesante attività portuale delle banchine, dal cotonificio a San Basilio, ormai accessibili da studenti e cittadini, verso una nuova, più completa integrazione con il corpo urbano, non è accettabile che un’oscurantista ed arrogante pseudocultura imponga la devastazione di un ambiente ancora prezioso ed unico, ma all’opposto è doveroso assecondare le dinamiche in atto evidenziando e relazionando tra loro i diversi elementi del patrimonio dell’architettura urbana, siano essi la chiesa millenaria od il capannone vecchio poco più di un secolo. Osservato inoltre che l’organismo vitale della città, sedimentatosi in secoli di coerente ed indipendente tradizione edilizia e culturale, viene ormai a chiudersi con l’allungato rettangolo planimetrico dell’ex Cotonificio Veneziano, si tratta di armonizzare e valorizzare con discreta ed equilibrata intelligenza l’esistente, compiti che possono venire assolti, in modo tradizionale ed al contempo assolutamente attuale, da un nuovo giardino.


La facciata dell’ex Cotonificio Veneziano, ora sede IUAV.
Sullo sfondo il campanile della Chiesa di San Nicolò dei Mendicoli.
Immagine estratta dal sito Internet: www.webalice.it/zanverdiani/storia.htm.