In ricordo di...
di Graziella Naccari

Clara Rossetti nata a Chioggia e trasferitasi a Venezia, si sposa dedicando la sua vita al marito
e ai suoi tre figli.
Solo in età avanzata impegnandosi allo studio delle materie letterarie e filosofiche, scopre le sue grandi passioni;
la poesia e la pittura.

Clara Rossetti

 

Cara Clara,

ho letto la tua poesia dal titolo “Dolore” e sfuggo al pensiero che tu… per questo ho deciso di scriverti queste quattro righe. Mi piace pensare che tu sia ancora qui tra noi cara ciosota, è ancora vivo il ricordo di quando, tanti anni fa ti ho conosciuta.
Frequentavo da qualche anno il corso di scrittura creativa tenuto dal prof. Stoppani, quando tu sei entrata a far parte di quel bel gruppetto molto unito, ci trovavamo una volta alla settimana ed ognuna di noi leggeva un suo racconto, ti ricordi!? Poteva essere frutto della fantasia o del vissuto, in silenzio si ascoltava ed eravamo tutte complici di quel gioco. All’inizio alcune di noi non avevano capito che la tua impulsività non era perché volevi prevalere sulle altre ma perché il tempo era tiranno e tu avevi tante cose ancora da fare e da dire, ma quando ti hanno capita sei stata accettata bene. Sei diventata una brava poetessa, nelle tue poesie spesso citi l’oscura metafora della morte, ma non quella tragica che tutti noi temiamo, ma una morte che è un passaggio, un fluire, una presa di coscienza dell’inarrestabile trascorrere del tempo.
Ma poi cosa dirti ancora, la tua passione per la pittura, “volere è potere” sei diventata una pittrice piena d’entusiasmo. Sì cara Clara mi hai insegnato molte cose sulla vita, ti ricordi l’estate scorsa quando sono passata per darti un salutino al Policlinico, eri seduta sul letto sopra le lenzuola in pigiama giallo sorridente come sempre, abbiamo chiacchierato di pittura di poesia della tua nipotina di cui sei orgogliosissima con giusta ragione, della tua malattia abbiamo parlato poco,ti ricordi mi hai detto: “Ho scritto delle poesie, ma sono tristi non te le faccio leggere quando andrò a casa te le manderò per email”.

Ci siamo salutate con un bacio e mi hai detto:
ciao fantolina grasie e se vedemo a casa mia”.

“Ciao Clara ci ritroveremo non lo so quando, ho tante cose ancora da fare in questo mondo… ma te lo prometto amica che prima o poi ci troveremo di nuovo”.

Mi mancherai ciao Clara.



Chioggia vista dall'alto

Dolore

E lascerò una Scia

No! Non ti permetterò
di aggredirmi ancora.

Anche se tremo.

Lottero per vivere
perché la mia anima è piena
e devo dare ancora.

Illusione effimera!

Ho il corpo stanco,
perché m’inganno?

E lascerò una scia di spuma bianca
dove l’occhio insinuante
scorgerà volti e immagini
di albe perdute
di sogni mai sognati
di viaggi concepiti
solo con la fantasia.

E lascerò una scia che
Inevitabilmente si scioglierà
come neve al sole per
ritornare acqua,
acqua che scorre fertilizzando
si tufferà
nella magica e tragica
realtà del tempo.


Volevo

Bimbo di Kabul

Volevo essere donna
ma ero bambina.

Volevo godere l’amore
ma ero bambina.

Volevo avere figli
ma ero bambina.

Poi, divenni donna.

Godetti l’amore
Partorii figli.

Ora voglio solo vivere.

Fiore di morte sbocciato
coi fiori di primavera
uccelino di carta senza nido
farfalla dalle ali insanguinate
da ordigni mortali,
hanno martoriato il tuo corpo
ucciso i tuoi sogni
sulla strada di Kabul




Le interpriti della commedia “La barufa”


La barufa

Astu sentio?
La vien de quà.
No! La barufa
xe in cale de là.

Cori Gigeta
Oh! quanta zente!
Spensi,spentona
No vedo niente!

La xe la Rita
Sempre la stessa,
co la Giovana
l’impiraressa.

Le se spentona
le se stratone,
ocio ai cavei
vardate i toi.

“L’ho vista mi la donzela
a scantonare la calesela

Incicinà
l’ho vista andare,
chi l’aspeteva?
el so compare?”

“El so compare?
ti, ti xe mata
te tiro drio na savata.

Bruta impostora
ti xe gelosa
perchè to fia
no la xe morosa.

No ti xe degna
neanche de un pelo
dell’onestà
del mio zogelo”.

“Vantame Gigia
sinò la strosso
dopo che cavo
i peli da dosso”.

“Doman de matina
volere o volare
la mia fantolina
se va a maridare”.

Una la spenze
l’altra la tira
in mezo al gatola la
va a finire.

Bote de quà
bote de là
ride la zente
Ha! Ha! Ha! Ha!

No ve metè
co le ciosote
se no ciapè
un saco de bote.


di Gabriella Tacchia
Io direi che l’umanità essendo un pò saggia e un pò sciocca, va avanti senza aver imparato niente dal passato e con tanta incoscienza affronta l’avvenire. Pensierino sibillino ma
non troppo!

Ardelia Boscolo


Ardelia Boscolo, storica corsista dell’“ASSOCIAZIONE CULTURALE NICOLA SABA” e carissima, fidata amica mia. Mi conosceva da sempre poiché abitavamo a Venezia nella stessa zona, in gioventù era stata amica di mia mamma e, forse, mi “aveva vista nascere” come suol dirsi. Era originaria di Sottomarina e apparteneva ad una numerosissima famiglia di cui lei era l’ultima nata. Aveva frequentato la scuola fino alla terza media, cosa rara a quei tempi perché non erano molti i ragazzi (e soprattutto le ragazze) ai quali era consentito di arrivare a un grado d’istruzione così “alto” e acquisire una buona cultura; tanto che poi potevano aspirare anche a un mitico posto in banca.
Ci perdemmo di vista per parecchi anni. Io venni ad abitare a Mestre nel 1965 e la mia vita continuò qui.
Successe che una mattina aprendo la finestra della mia camera, vi vedo affacciata al balcone dirimpetto al mio un viso vagamente familiare e… -“Ardelia”- dico a bassa voce. _”Toh, se mi credeva… cosa ti fa la!!!?”_
-“So a casa mia”.-
-“Anca mi” e giù una risata. Così mi raccontò dello sfratto dalla casa di Venezia e della fortuna di poter abitare in un appartamento di sua nipote Rosetta.
Ardelia, a quel tempo, lavorava ancora e tutte le mattine tornava a Venezia e a casa lasciava il marito molto più anziano di lei. Mi raccontò che loro due si erano scambiati i ruoli: lui faceva il casalingo a tempo pieno e lei continuava a lavorare in attesa dell’età della pensione.
Non avevamo tempo di frequentarci; lei lavorava ed io avevo i figli ancora adolescenti che mi impegnavano molto ma ci sentivamo spesso tanto che un giorno, viste le bollette telefoniche che lievitavano, ci accordammo di farci un segnale. Due squilli ed eravamo pronte a ”vederci” dal balcone per le nostre chiacchierate. Forse eravamo delle Giuliette senza Romeo o forse “ragazze squillo” e su questo quesito ci facevamo delle sane risate.
Un giorno mi ventilò, sconsolatamente, la parola “pensione”. Mi confidò che da un lato si sentiva sollevata dalla necessità di alzarsi prima dell’alba anche in pieno inverno per andare al lavoro, ma dall’altro si sentiva diventare quasi inutile, priva di vita. Pensava che le sarebbero mancati i rapporti con le giovani colleghe che contribuivano a farla sentire bene fisicamente e intellettualmente. D’impulso bloccai la sua elucubrazione e le proposi di frequentare insieme a me il “Nicola Saba”. Quest’associazione era nata da pochi anni ed io frequentavo già vari corsi così a settembre, venne con me ad iscriversi per il nuovo anno scolastico. Medicina, filosofia, psicologia, scrittura, computer, chi più ne ha più ne metta. Aveva ritrovato la sua serenità e la vitalità perché era a contatto con persone di cultura e con le corsiste delle quali lei era quasi sempre la più anziana ma sempre giovane nelle idee.
Dopo qualche anno la sua situazione cominciò a cambiare. Ebbe diversi lutti molto gravi: dapprima il marito, poi la carissima nipote Rosetta e il genero. Si sentiva superstite, sola e sola voleva restare insieme alle sue malattie dovute alla senilità. Pian piano si allontanò da tutto, smise di frequentare la scuola, non rispondeva più agli squilli con i quali la cercavo, non voleva vedere nessuno. Era caduta in uno stato di depressione dal quale non intendeva uscire. Chi l’ha conosciuta, sa che Ardelia aveva un carattere spinosetto e non c’era verso di farle fare ciò che non voleva, non si lasciava convincere da nessuno, era difficile anche solo andar a farle visita e in questo modo il vuoto intorno a lei aumentò.
Io cercavo sue notizie tramite la sua coinquilina-badante, a volte incontravo sua figlia, sua nipote e la mandavo a salutare ma capivo che la situazione peggiorava sempre più finchè venne il momento in cui non poterono fidarsi di lasciarla sola neanche per poco.
Ultimamente era seguita nelle ventiquattro ore da una signora moldava. Adesso che non c’è più sto ricordandola con tanto affetto e commozione a voi tutti che l’avete conosciuta e stimata.


(URLO) VOGLIO IL MIO NOME
Da una quarantina d’anni c’è una erre che mi perseguita dandomi la sensazione d’essere monca.
- Una lettera dell’alfabeto? - chiederete voi.
- Già - rispondo io - proprio così!
Spiego: sono nata Ardelia e per un sacco di anni ho vissuto con questo nome pacificamente e in perfetta simbiosi.
Così mi chiamavano in famiglia, a scuola e gli amici. Sotto sotto mi piaceva. Quando mi presentavo a qualcuno seguivano sempre commenti, ma sistematicamente tutti lo dimenticavano con la scusa che era anomalo. A me non importava. Era mio e me lo tenevo.
Poi per potermi sposare, ho avuto bisogno dell’atto di nascita originale e cosa mi trovo? L’erre non c’era più. Era rimasto solo Adelia. Sbigottimento, costernazione, come mi avessero messo al corrente di una tara in famiglia.
Quasi quasi non mi sposo più. Mi tengo il nome sbagliato.
Cosa? Quelli dell’anagrafe inorridiscono come se avessi detto chissà che bestialità. Insisto.
- Per favore, vi prego, basta solo aggiungere una piccola lettera!
Niente da fare. Si sa. Le mezze maniche al posto del cuore hanno il regolamento e mi avvisarono che se non avessi levato l’erre dal mio nome, avrei violato le modalità della legge VATTELAPESCA.
Comincio la mia vita matrimoniale! Il nome nuovo non mi serve. In casa sono la mamma, e gli amici e i parenti continuano a chiamarmi come sempre.
Il brutto viene quando ho avuto bisogno di lavorare fuori casa. Memore degli avvertimenti avuti, ho dato il mio nome legale, ma per semplicità mi chiamavano Delia.
Non mi interessava! Lettera più, lettera meno ero già stata amputata.
Mi sembrava d’esser in incognito. Mi ritrovavo solo con chi mi chiamava con quell’erre in più che in me creava un mondo pieno di intimità.
Penso al detto: “Dimmi il tuo nome e ti dirò chi sei”.
Mah! Balle! Adesso sono in bilico.
Dapprima, con gente nuova, mi presento con il nome come da certificato; e non mi sento sincera. Poi man mano che faccio confidenza, sento questa erre che spinge, spinge e vuol uscire. Non sempre le do retta. Alle volte mi chiedo che nome metteranno sulla mia tomba. Certamente senza erre. Ma tanto là sotto ci saranno solo le mie spoglie. Io, sarò tra le stelle a cavalcioni su quell’erre che mi é stata tolta dalle convenzioni sociali, e che per me ha significato la sostanza del mio essere.
Ardelia Boscolo