Testimonianza
Un gigante della fotografia
di Stelio Fenzo

Fulvio Roiter è ritenuto
“il fotografo di Venezia”
ed è conosciuto dai più
soprattutto per le foto
che la ritraggono.


Fulvio Roiter


prof.ssa
Gabriella Mazzone,
Preside della scuola
“Giulio Cesare di Mestre”


Alta marea in
Piazza San Marco


Il grano delle
Assicurazioni Generali
a San Marco


Piazza San Marco


La barca dei morti

Squero di San Trovaso


Mazorbo


Imbarcazione “Caorlina”
con vogatori

Scala del Bovolo

 


 

Sabato 18 dicembre 2010 alle ore 11 circa dentro il bar dell’albergo “Bologna”, davanti alla stazione ferroviaria di Mestre sto aspettando un vecchio amico: FULVIO ROITER. La sera precedente, per telefono, mi aveva comunicato che sarebbe venuto all’appuntamento con gli alunni della scuola “Giulio Cesare” al cinema Dante, provenendo da Reggio Emilia dove la sera prima aveva tenuto un incontro con quei cittadini illustrando non so quale dei suoi libri fotografici. Appena arrivato Fulvio mi dice che l’incontro si era protratto fino alle due di notte ma che era stato molto interessante. Ora quest’uomo di ottantacinque anni che ha questa forza per affrontare dopo una notte piuttosto movimentata la sala di un cinema pieno di studenti mi affascina. In sala tutto è pronto: il prof. Gianfranco Peretti e l’amico Giancarlo Brocca sono pronti per riprendere la manifestazione con le videocamere. Entrano gli studenti e la prof.ssa Gabriella Mazzone, Preside della scuola “Giulio Cesare”, inizia presentando il grande fotografo con il timore, come più tardi mi ha confessato, che gli studenti possano stancarsi ad ascoltarlo. Io sono stato incaricato di presentare Fulvio Roiter e pertanto leggo poche righe che mi ero preparato e sono esattamente queste:
Sono Stelio Fenzo ed ho il piacere di presentare un grande fotografo. Un fotografo di fama mondiale: FULVIO ROITER. Un ARTISTA.
Fulvio Roiter è nato a Meolo il 1° novembre 1926 e vive al Lido. Ha esordito nel 1954 con un volume in bianco e nero su Venezia (Venise a fleur d’eau), primo libro fotografico di autore italiano. Nel 1956 vince la seconda edizione del Premio Nadar con il libro “Ombrie”, edito per le éditions Clairefontaine. Ha in seguito compiuto numerosi viaggi, dai quali sono scaturite oltre 70 pubblicazioni.
Fulvio Roiter è ritenuto “il fotografo di Venezia” ed è conosciuto dai più soprattutto per le foto che la ritraggono.
Ricordo “Venezia Viva”, nel 1973. Poi “Essere Venezia” (1977), “Laguna” (1978), “L’Oriente di Venezia” (1980) e “Carnevale a Venezia” (1981).
Le foto di Roiter sembrano semplici e perfette; talmente semplici, talvolta, da far pensare “Questa potevo scattarla anch’io”.
Talora ci ho provato anch’io, ma . . . .
Ma per non rubare del tempo prezioso lascio che sia lui stesso a raccontarci la vicenda della sua vita e a commentarci le foto che gentilmente ci ha portato e che verranno proiettate grazie all’aiuto del prof. Gianfranco Peretti.

Ed ora un po’ di cose su questo gigante della fotografia:

La prima fotografia è stata scattata nel 1949 sul litorale veneto ed è in bianco e nero. L’ultima, a colori, è datata novembre 2007, realizzata durante la biennale d’arte di Venezia. Fulvio Roiter, il fotografo del rigore formale e della ricerca del bello, mette in mostra un distillato di cinquant’anni di lavoro, alla Galleria BelVedere di Milano. Dal titolo «Infinita Passione», la raccolta di immagini spazia da quelle più famose scattate a Venezia durante il carnevale (tra le gondole e le calli), ai reportage a colori, realizzati in Messico, Egitto, Costa d’Avorio, Iran e Brasile. Il fotografo di Meolo, cittadina a trenta chilometri da Venezia, è cresciuto nel dopoguerra tra quelle riflessioni che legavano la fotografia all’arte contemporanea, anche grazie alla frequentazione del circolo «La Gondola» di Paolo Monti. Le sue immagini in bianco e nero hanno un rigore formale che rimanda alla fotografia francese di Cartier-Bresson. Quelle a colori ricercano la perfezione nella variazione cromatica, attraverso l’occhio di un amante del viaggio.

Domande di un’intervista a Fulvio Roiter:

Da diplomato in chimica, come è arrivato alla fotografia?

Era mio padre che smaniava perché diventassi perito chimico: a Marghera c’era molto lavoro in questo campo. La mia famiglia veniva dalla campagna e nel dopoguerra se andavano male due raccolti, facevi la fame. Ma per me il desiderio di arte era il vero riscatto».

Quando ha iniziato a fotografare?

«Mio padre mi regalò una Welta alla fine della scuola media e poiché abitavamo vicino alla campagna, ho iniziato a fotografare la natura. Ma io avrei strappato dal collo una Laica a un tedesco! Era la mia macchina dei sogni ma costava dieci volte la Welta… Allora, visto che il mezzo era quello, ho tirato fuori tutto il possibile dalla mia macchinetta. Per guadagnare, poi, facevo soprattutto matrimoni e funerali. La prima volta che ho fatto le foto a un matrimonio decisi di svilupparle da solo. Mi chiusi in camera da letto, studiai i prodotti, cercai di gestire l’iposolfito e misi tutto al buio. Ma sbagliai i tempi di esposizione e… niente foto!».

Poi ha imparato…

«Sì e ho sempre fatto tutto io: scatti, sviluppi e stampe. Oggi con il digitale siamo arrivati a ridurre il tempo d’inerzia, quella frazione di tempo dell’attimo straordinario, decisivo. La fotografia cattura l’attimo fuggente».

Cartier-Bresson teorizzava l’istante decisivo.

«Sì, infatti. Ma ci vuole anche l’occasione giusta. Cartier-Bresson capitò in India durante i funerali di Gandhi: la vita è casualità e mistero. Se uno sta a letto non fa niente. Veda per esempio la tragedia del dirigibile Hindenburg. Il famoso Zeppelin tedesco pieno di idrogeno che nel ’37 attraversava l’oceano in cinque giorni: il giorno che prese fuoco mentre stava atterrando nel New Jersey ha dato l’occasione a molti reporter. Le immagini scattate dal fotografo che era lì sotto hanno fatto il giro del mondo! Il merito è esserci. Il valore del fotografo è relativo, ha bisogno dell’avvenimento».

Ma le sue fotografie non sono solo di reportage.

«Mi ha sempre affascinato la quotidianità, quello che noi chiamiamo il banale, che ci portiamo dentro. Non esiste un prontuario delle cose che si possono fotografare: è la realtà che ci sorprende. La differenza è quando e come. Bisogna avere una specie di terzo occhio, la capacità di coordinare il cervello e l’occhio».

La foto più antica in mostra è del 1949 ed è dedicata a Paolo Monti, perché?

«Il fondatore del circolo “La Gondola” di Venezia per me era come un padre. Quando l’ho conosciuto lui aveva 45 anni e io 23. Non aveva figli e mi apriva la sua casa piena di libri di tutti i tipi, per me tutti interessanti, dai romanzi ai saggi. Amavo la sua cultura.
Io in campagna ero isolato mentre a Venezia leggevo le riviste, viaggiavo con la mente. La fotografia, poi, era il mezzo del nostro tempo. Ho scattato la fotografia alla conchiglia sul litorale veneziano, quel giorno, insieme con Paolo Monti.
Andavamo in giro per cercare particolari e quella conchiglia l’ho scelta con lui».


E il circolo «La Gondola»?

«Il circolo era importante per parlare, scambiare idee. C’era una riunione ogni giovedì e la prima volta che sono andato mi sono fatto dare i soldi da mio padre per dormire fuori. Ma le volte successive non potevo permettermelo e allora a mezzanotte andavo alla stazione e dormivo sul treno. Allora il treno era già sul binario dalla sera anche se partiva la mattina. Dormivo in prima classe, sui velluti rossi e appena sentivo il movimento del motore mi spostavo in terza per arrivare prima del controllore a pagare il biglietto».

Come ha conosciuto l’editore Guilde du Livre?

«Quando ho finito di perlustrare il mio territorio e non c’era un metro quadrato che non conoscevo, sono andato in Sicilia. Era il ’53. Al ritorno ho messo 40 foto in un pacco e l’ho mandato a Guilde du Livre, l’editore svizzero del quale avevo visto alcuni libri pubblicati. Ho aspettato la risposta per giorni e quando la lettera è arrivata non osavo aprirla. Avevo sentito al tatto che aveva più di un foglio: l’editore scriveva che voleva pubblicare le foto per un libro sui bambini. Per l’emozione quel giorno non sono riuscito a mangiare! Risposi subito che stavo partendo per il nord Europa con lo scopo di fare un reportage e potevo passare per la Svizzera per incontrarlo. Non era vero ma prontamente partii e andai a trovarlo. Arrivato a Losanna a luglio, trattai per fare le foto a Venezia e così realizzammo il libro “Venise à fleur d’eau”, uscito nel ’54, che ha venduto 15mila copie. Per un mese andavo a Venezia dalla mattina alla sera, con il treno ci volevano 45 minuti dal mio paese. La foto di quel treno è a pagina 36 del catalogo (Fulvio Roiter, “Infinta Passione”, edizioni BelVedere-Electa, ndr). Per me i libri sono sempre stati migliori di una mostra, perché arrivano a New York, Parigi, girano ovunque».

Lei pensa che la fotografia sia un’arte minore?

«È il linguaggio del nostro tempo e ha una forza immediata. Anche un analfabeta può leggere le immagini, la politica l’ha capito subito. Se ci fa caso i bambini davanti alle fotografie si ammutoliscono, ne vengono catturati, la fotografia ha il potere di sedurre».

Un consiglio a un giovane fotografo?

«A un giovane fotografo direi: il bianco e nero è importante per imparare. Il processo creativo è globale, si parte dal cervello, si passa allo scatto e poi alla stampa. Con il colore è diverso. Solo quando la foto a colori esalta il cromatismo diventa efficace, ha un forte impatto. Guardi la mia fotografia scattata a Venezia, all’Arsenale, nel novembre 2007: lì dentro c’è tutta la città con il suo significato. La luce è espressa a puntini sull’acqua, tipicamente veneziana. I sei gradini che scendono al mare sono mezzi puliti e mezzi verdi e danno l’idea della marea. La linea del molo è rigorosa e divide in due la terra dall’acqua. Ma con la stessa attenzione si può esprimere anche la Pampas argentina. Non bisogna conoscere per forza un luogo. Io di solito raccolgo più materiale possibile, ma il primo impatto è quello che crea le immagini migliori. Una buona foto dipende dalla fortuna e dalla luce. Le cose partono da dentro».

“Io sono stato geneticamente programmato per fare il fotografo”
dice Fulvio Roiter. “Da bambino mi affascinavano le macchine, la Leica, la Contax che vedevo nelle pubblicità di ‘Vie d’Italia’ e ‘Vie del mondo’. La prima che ho avuto, un regalo di mio padre come ho già detto, era una Welt e costava 600 lire; un decimo di quanto avresti pagato una Leica, che era uno di quegli oggetti da piacere fisico, ad avercela fra le mani. Fotografavo senza logica e senza tecnica, con il ventre... Sa come dice Céline: ”Scrivere con le trippe”, ecco, era la stessa cosa. Avevo vent’anni, intuivo, ma non sapevo spiegare il perché. Adesso che ho superato i settanta (al tempo dell’intervista), ho lo sguardo di allora e l’esperienza dell’età. Dicono che l’abitudine distrugga l’occhio: dove vivi finisci con il non vedere niente. Può darsi, ma non vale per me: mi salva l’emozione, sono ancora in grado di emozionarmi, e la curiosità delle persone, delle cose, dei paesaggi. Il tempo mi ha insegnato a scremare: nelle immagini cerco l’essenzialità, che è un grado di scrittura. Prenda i quadri di Emilio Vedova: se ne tagli metà, non te ne accorgi nemmeno. Io,invece, sono per l’asciuttezza”.
Un’immagine rende meglio di una spiegazione.
Di là dal vetro punteggiato di gocce di pioggia, si profila l’isola di San Giorgio: a sinistra s’innalza il campanile sistemato nel 1791 da Benedetto Buratti, e ne indovini la sagoma e ne intuisci il color ruggine dei mattoni. Al centro, la chiesa innalzata dal Palladio. Il grigioverde del mare sembra debba confondersi con quello del cielo, e San Giorgio potrebbe essere un veliero alla fonda o naufragato in laguna. La foto fa parte di Essere Venezia, il terzo dei libri che Roiter ha dedicato al capoluogo veneto, il primo interamente a colori. Se invece di perder tempo con Toscani, Cacciari avesse frugato nella libreria di casa, avrebbe trovato ciò che dà la fragilità e l’unicità della città di cui è sindaco, ne compendia grandezze e miserie. “Io ho stima per Oliviero Toscani, ma Venezia in quella sua campagna pubblicitaria non la vedi. Ci sono due cani che si accoppiano, una pantegana... Anche New York ha i cani e le pantegane... Dicono ‘un modo per richiamare i problemi’. Sarà... Quel che è certo è che io i ‘problemi’, una parola da intellettuali che oggi va tanto di moda, non li fotografo. C’è un filo di lana immaginario, oltre il quale si fa violenza, si mercifica il dolore. Non mi piace e non mi interessa.
Passeggio con un amico, una signora anziana lo saluta, ci supera e lui mi fa. ‘Poverina, ha i giorni contati, leucemia’. Mi dispiaccio, ma penso che abbia avuto comunque la sua vita. Poi incrociamo una diciottenne: stesso rituale, anche lei, mi dice l’amico, è molto malata. E allora scatta la ribellione, vorrei mostrarne la bellezza, far capire che è in pericolo, spingere a cercare nuove cure, trovare il medicinale che la salverà. Ecco, per me Venezia è una bellissima ragazza nata alcuni secoli fa. Una ragazza di mare, e quindi più fotogenica e più fotografabile.
C’è il riverbero, è immersa nell’acqua, ci sono giornate di tale trasparenza... Il significato letterale della parola fotografia è: ‘Scrivere con la luce’. “Quel che cerco di fare, trovare attraverso la luce il significato. Naturalmente, non basta la macchina: non è l’obiettivo a suggerire, è l’occhio a vedere e a fare in modo che la macchina ubbidisca, traduca ciò che l’occhio ha visto. Insegnare a fotografare non è un problema, è insegnare a vedere che è difficile.
L’ultimo libro di Roiter, appena uscito, (sempre al tempo dell’intervista) si chiama Viaggio italiano (Rizzoli editore), 311 scatti da un capo all’altro della penisola. “Sull’Italia avevo un materiale formidabile, frutto di un quarto di secolo di spostamenti. Il titolo giustifica le scelte, è soggettivo, racchiude ciò che ho visto.
Io faccio racconti per immagini. Ho cominciato da professionista, nel 1953, avevo 27 anni, vivevo a Meolo, per fare contenti i miei avevo studiato chimica, mi ero specializzato in idrocarburi. Non c’era metro quadrato del mio paese che non avessi fotografato... Ma per mio padre quello non era un mestiere serio. Feci un patto con lui: andare in Sicilia per un mese, a vedere e a fotografare. Se da quel viaggio fossi uscito come un fotografo in grado di campare con il mio lavoro, bene. Se no, avrei ripreso con gli idrocarburi. Spedii la bicicletta a Palermo, bagaglio a mano. La recuperai alla stazione. Ho pedalato per duemila chilometri, in giro per l’isola, ho fotografato tutto quello che mi sembrava fotografabile. Tornato, ho mandato una scelta a ‘La Guilde du Livre’, la casa editrice di Losanna che era allora il tempio sacro dell’immagine. L’ho accompagnato con una lettera, piena di scuse, di pudori, sa le lettere che si scrivono quando si è agli inizi, credi di valere qualcosa, ma non hai la controprova, non c’è nessuno che crede in te... Per un paio di settimane feci la posta all’ufficio postale: “Toni, gh’è niente per me? Niente Fulvio”. Poi un bel giorno, la risposta. Non so ancora l’inizio a memoria: “Monsieur, vous etes trop modeste”. Da allora non mi sono più fermato. Anni dopo, mio padre andò a cambiare un assegno in banca. “Ha un documento?” gli chiese l’impiegato. “Documenti? Ma se mi conoscono tutti qui a Meolo”. “Mi dispiace ma io sono nuovo e non la conosco, così come lei non conosce me.” “Infatti. Mi presento, ragionier Tovaglia”. Piacere, Roiter. “Roiter come il fotografo?”. “Sono il padre”. “Guardi, le cambio quello che vuole, ma mi deve far conoscere suo figlio”.
La sera a casa mio padre mi fece: “Senti un po’, conosci un certo ragionier Tavoglia?”
“Mai sentito nominare. Perché?” “No, niente”. A letto disse a mia madre, cui aveva già raccontato tutto: “Meglio non dirgli niente, visto mai, si monta la testa...”
Il “non mi sono più fermato” di Roiter significa una trentina di libri: dalle incisioni preistoriche della Valcamonica alla Firenze sportiva, dall’Umbria di San Francesco alla Andalusia di Lorca, Machado, Unamuno, dalla Venezia a fior d’acqua a quella a fior di laguna o in maschera carnevalesca. Senza dimenticare il Brasile, il Messico, la Turchia, Bruges... Per Ombrie. La terre de San Francois, il suo secondo volume, prese il premio Nadar per la fotografia, che in Francia è come il Goncourt per la letteratura e in Italia come lo Strega, quando lo Strega era ancora un premio. “Nadar, Un genio. I suoi ritratti, pensi a quello di Baudelaire, per esempio. I soggetti dovevano star fermi, immobili, per almeno due minuti. Provi oggi a tenere uno in posa per 120 secondi, e vedrai che faccia da fesso vien fuori. Lui invece tirava fuori l’anima. Allora la fotografia era agli esordi, oggi abbiamo macchine sofisticatissime e pellicole ultrasensibili con cui puoi fare tutto. Eppure, con un milione di immagini al giorno non c’è l’Immagine che Nadar riusciva a condensare in una posa”.
Ragazzo, durante la guerra, Roiter ha attraversato ricostruzione e boom, anni di piombo e anni di latta a passo di carica, ma senza troppe illusioni.
“Mezzo secolo di ideologia schiantano un tedesco, figuriamoci un italiano. Poi c’è stata la grande menzogna del linguaggio: nessuno come i comunisti ha saputo barare con le parole. Il mercenario che si trasforma in volontario, l’agente speciale in consigliere, il libertario derubricato a provocatore, chi è in disaccordo a controrivoluzionario... Risultato: non sappiamo più chi siamo.
C’è il benessere, sì, ma non c’è il tessuto civile che fa la dignità di una nazione. Per cui c’è la compiacenza della miseria, la pietà a buon mercato, quel titillare il basso, il volgare che esiste nell’animo umano, nei singoli come nei popoli. Io invece credo alla virtù terapeutica del bello, al suo valore taumaturgico. Un giorno mi ha scritto una signora da Napoli: il marito operato di tumore e che non ha più gusto per la vita, sempre più chiuso in se stesso. Unico spiraglio, l’amore per la fotografia, una passione per le mie. Vuole aiutarmi, essere mio complice? terminava, una lettera così bella asciutta e commovente che se sapessi scrivere così farei lo scrittore, mica il fotografo... Be’ per farla breve ho telefonato, sono stato loro ospite, ho visto una persona tornare a vivere. Negli anni, la famiglia si è allargata, è arrivato anche un figlio... Poi dicono che la fotografia non è magia. Lo è amico mio, ma ci vuole fede. La fede nella bellezza”.
Dalla sua casa al Lido, dove abita con Louise “Lou” Embo, la bella moglie belga anche lei fotoreporter di fama (Tremiti, Vianello editore, con un testo di Tony Damascelli, firma che i lettori del Giornale ben conoscono, è la sua ultima fatica), l’autore dell’intervista se ne va portandosi via una fotografia. Consegnadomela Roiter la commenta così:
“Prima si parlava dell’abitudine, del fatto che a forza di vedere sempre le stesse cose alla fine non ce ne accorgiamo più. ‘Belle comme la belle femme des autres’, diceva Morand per spiegare il meccanismo psicologico che ne è alla base: bella come le belle donne degli altri, della nostra non ce ne rendiamo più conto, ci sta sempre davanti agli occhi. Bene, tempo fa vado a Fossalta di Piave, dove Ernest Hemingway, ferito della Grande guerra, ricevette le prime cure. Un luogo che ho visto mille volte. Questa volta però erano sbocciati dei tulipani. Ho lasciato la casa sullo sfondo e, in controluce, ho messo a fuoco i fiori. Ecco, guardi i petali sembrano gocce di sangue, il sangue di Hemingway. Se le piace, gliela regalo”. L’ho già incorniciata.

Questo è Fulvio Roiter!

La mattinata al cinema Dante continua mentre sullo schermo appaiono le immagini del suo ultimo libro su Venezia: ”UNA VITA PER VENEZIA” e l’Autore commenta con entusiasmo immagine dopo immagine. Battimani del giovane pubblico quando lui annota la presenza di un piccione che spesso appare nelle foto.
Verso l’una l’instancabile Roiter finisce tra gli applausi di tutti, ma non finisce qui perché gli viene chiesto di soffermarsi ancora per firmare i diari di molti degli studenti che lo circondano.
Alla fine ,mentre lo riaccompagno in auto verso Piazzale Roma, Roiter mi dice:
“Stelio, quello di stamattina è stato forse uno dei più begli incontri che ho fatto! Grazie!”