di Mario Meggiato



Il giorno 11 novembre 1999, nell’ambito delle manifestazioni relative all’anniversario (4 novembre) della fine della prima guerra mondiale (1915-1918), ci siamo recati sull’altopiano di Asiago.
 



Incontro con Mario Rigoni Stern 




Strada facendo la nostra guida, prof. Michele Serra, ci ha indicato le montagne e i luoghi dove sono avvenute alcune cruente battaglie tra i soldati italiani e quelli austriaci; in particolare il Monte Cengio, dove si è consumato un drammatico confronto chiamato anche “spedizione punitiva” da parte austriaca, costato 2000 morti. Abbiamo effettuato, assieme ai nostri professori, un percorso lungo le gallerie scavate nella roccia dai “Granatieri di Sardegna” e, a tratti, all’aperto da dove si poteva vedere la vallata dell’Astico, ora ricca di industrie. Lungo il percorso ci è venuto spontaneo riflettere sul fatto che, mentre per noi si trattava di una simpatica gita guidata, quegli stessi luoghi furono, per molti mesi gli “habitat” di molti giovani, lontani dai loro affetti, alle prese con il freddo, la scarsità di cibo, la paura e la morte. Tutto ciò per una guerra che, probabilmente, non apparteneva a loro; così come erano loro estranei gli obbiettivi finali della guerra medesima (cosa forse comune per tutte le guerre combattute direttamente dai ceti popolari). La prima guerra mondiale si differenzia comunque dalle precedenti perché per la prima volta nella storia dell’Italia unita migliaia di giovani, provenienti dalle diverse regioni del nuovo Stato, si trovano schierati su di un fronte, relativamente limitato, in un territorio forse ai più sconosciuto. Abbiamo quindi visitato due monumenti a Cesuna (due cimiteri: italiano e inglese). Dopo pranzo abbiamo avuto l’opportunità di incontrare ad Asiago il famoso scrittore veneto Mario Rigoni Stern, autore fra gli altri del “Il sergente della neve” inerente la sua esperienza diretta nella campagna di Russia durante la seconda guerra mondiale. La presenza di giovani studenti albanesi ha fornito lo spunto al famoso autore per auspicare una effettiva unione europea che, ancor prima di essere “unione di economie”, possa essere una unione di uomini capaci di solidarietà in modo da evitare altre dolorose ed inutili guerre. Ci siamo infine recati in una scuola, sempre ad Asiago, per incontrare il presidente delle Comunità dei Cimbri. Egli ci ha brevemente parlato delle origini di queste popolazioni e quindi, riferendosi anche ad alcune esperienze personali, ci ha invitato a riflettere sul valore delle differenze, anche linguistiche, le quali possono costituire, di per sé stesse, ricchezza per tutti “noi non possediamo parole, ma siamo le nostre parole”, soprattutto se ci abituiamo ad assumerle con la dovuta serenità in modo che ci aiutino a comprendere anche altre differenze che la realtà odierna ci sta proponendo, in modo da poterle affrontare con altrettanta serenità, senza cedere alla tentazione di sterili chiusure giacché “noi siamo anche la relazione con gli altri”.
cenni storici
L’Altopiano di Asiago, territorio un tempo pressoché impraticabile e selvaggio, è stato certamente luogo di ripiego e di rifugio per frange di tribù e di popoli che negli inquieti secoli postroniani, varcarono le Alpi. Subito dopo il Mille, famiglie di coloni bavaresi alla ricerca di terre da disboscare, bonificare e coltivare raggiunsero l’Altopiano e quassù, al sicuro, riordinarono la loro vita, mantenendo poi nel tempo (grazie anche alla posizione isolata del loro territorio rispetto alla pianura) la lingua ed i costumi originari. I primi insediamenti furono Rotzo, ad ovest, ed Enego, ad est, in corrispondenza cioè dell’avanzare della colonizzazione del territorio dai bordi verso il centro.Via via sorsero poi gli altri, e cioè Gallio, Foza, Roana, Lusiana, Asiago, che divennero ben presto Comuni, "protetti" dapprima dagli Ezzelini e poi dagli Scaligeri e dai Visconti; attraverso la ‘protezione' ottennero così speciali privilegi economici necessari alla sopravvivenza in un territorio difficile come questo. In tale periodo l’unione fra i Sette Comuni si rafforzò sino al patto della Reggenza (1310) che permise agli Altopianesi di godere di autonomia politico amministrativa e di avere addirittura una propria milizia. A quell’epoca risale il motto: "Dise saint Síben, Alte Komeun, Prödere Liben" ("Questi sono i Sette Antichi Comuni, Fratelli Cari"). Nel 1404, la Federazione dei Sette Comuni s’alleò volontariamente alla Repubblica di Venezia in un’unione che durò ben quattro secoli (1807). Venezia garantiva le esenzioni e i privilegi indispensabili alla Reggenza e richiedeva ai Comuni la salvaguardia dei confini settentrionali (importanti strategicamente), impegno che costò talvolta alle popolazioni locali pesanti sacrifici. Con la Rivoluzione Francese e con le successive vittorie di Napoleone, Venezia decadde e con essa anche la Reggenza. Alla breve dominazione francese subentrò presto, nel 1815, quella Austriaca che, di colpo, annullò tutti i benefici goduti fino ad allora dalle genti dell’Altopiano, sostituiti da tasse ed imposte che finirono col portare l’Altopiano ad un’economia di pura sussistenza. Da qui ebbe origine il fenomeno dell’emigrazione verso le regioni più promettenti d’Europa e d’oltre oceano.Nonostante le difficoltà, comunque, ai primi del secolo apparvero anche qui i segni del progresso moderno, con opere pubbliche di estrema utilità ed importanza. Sorsero i primi alberghi e le prime banche e vennero tracciate nuove vie sia di comunicazione interna (fra cui l’importantissimo ponte sulla Valdassa) quanto esterna, cioè fra l’Altopiano e la pianura (fra cui la realizzazione della ferrovia a cremagliera). L’emigrazione però continuava, anche se nuove attività (estrattive, della distillazione ecc.) iniziavano ad essere proficuamente praticate. La prima guerra mondiale, che ha visto l’Altopiano zona di confine, può essere considerato l’evento in assoluto più tragico e disastroso della sua storia, e ciò sia dal punto di vista umano che ambientale. In seguito a questo il distacco e la dispersione dei nuclei familiari ha causato in molti il senso dello "sradicamento" dalla propria terra, un allontanamento affettivo e culturale dalle conseguenze quasi irreversibili. La ricostruzione del territorio dopo la Grande Guerra ha prodotto paesi nuovi ma meno caratteristici e non ha fatto venir meno la disoccupazione e l’emigrazione, fenomeni ripetutisi successivamente in un alternarsi protrattosi anche nel secondo dopoguerra per l’insufficienza delle attività tradizionali a garantire una crescita rispondente alle nuove esigenze.  Verso gli anni ‘60, l’intensificarsi pressoché improvviso dell’attività turistica con la costruzione di ville ed appartamenti, impianti sportivi ed altro, ha prodotto una profonda trasformazione economica, sociale e culturale che ha costretto e che costringe ancor oggi all’impegno di conciliare le attese di un giustificato benessere con la necessità di salvaguardare il territorio e l’identità culturale trasmessa dalle passate generazioni.
"l'altra faccia della guerra": l'esodo e il profugato
Le vicende della Prima Guerra Mondiale, nei quarantun mesi di ostilità, tra offensive e controffensive, avanzate ed arretramenti (e l’estenuante logorìo della vita di trincea) hanno lasciato sull’Altopiano testimonianze pressoché indelebili che chiunque può facilmente riscontrare quasi dappertutto. Sui luoghi di battaglia poi, si posson trovare ancora dei resti, per lo più minuti, di armi, di granate e di proiettili, di filo spinato ed anche di effetti personali; talvolta persino dei frammenti ossei umani. Qui il sacrificio dei combattenti, per quanto terribile, appare previsto ed immaginabile: ma cos’è costata la guerra alla gente di quassù che, dopo un anno di convivenza con i Comandi del 5' Corpo d’Armata italiano e con le truppe delle retrovie del fronte, ha dovuto, per la prima volta nella sua plurisecolare storia, abbandonare in massa i paesi e precipitosamente fuggire verso una destinazione ignota? "Nessuno piangeva, ma i loro occhi guardavano assenti. Era il convoglio del dolore. I carri, lenti, sembravano un accompagnamento funebre...’. Ci avesse lasciato solo questo, Emilio Lussu, avrebbe per noi già fatto abbastanza: due righe così compiutamente evocative che valgono forse più di un trattato di storia! Da quel 15 maggio 1916 la guerra è entrata nella memoria e nel sangue (oserei dire nel corredo genetico!) d’ogni Altopianese. Anche di coloro che, come me ed i miei coetanei, arrivati dopo, l’hanno "respirata’ già nei primi anni di vita dai ricordi dei "vecchi" alpini e da quelli dei profughi, oltre che nelle "cicatrici" scoperte ovunque durante le avventurose perlustrazioni giovanili sugli ex-campi di battaglia. Ciò che più ci avvinceva erano naturalmente i racconti dei superstiti, non solo di coloro che avevano combattuto ma anche delle donne e degli anziani, che ricordavano ancora con terrore i primi tremendi colpi del più potente cannone austriaco (dai proiettili di 75 quintali l’uno) caduti sul paese cagionando morti e feriti fra la popolazione. Dovettero andarsene in tutta fretta dunque, per ordine del Comando militare, portandosi dietro appena poche cose. Per alcune comunità era stato fissato, seppure non obbligatoriamente, il centro di sfollamento: la popolazione di Asiago a Noventa Vicentina, quella di Rotzo a Barbarano, quella di Gallio ad Albettone, e così via. Molti però preferirono rifugiarsi altrove, presso parenti o conoscenti sparsi per il Veneto o addirittura in altre regioni (Lombardia, Piemonte, ecc.). La popolazione Altopianese dunque, più o meno frazionata e dispersa, cominciò così, con una lira giornaliera di sussidio governativo, la sua lunga odissea di "34 mesi di profuga vita", mentre i paesi natii venivano via via devastati e demoliti, ridotti a macereti di ungarettiana memoria. Ascoltando i profughi s’è potuto capire la veridicità del dramma vissuto da migliaia di famiglie sprovviste di tutto, alla ricerca di alloggio e di sostentamento. Ci fu indubbiamente chi li accolse con umanità, ma molti ebbero nei loro confronti un atteggiamento freddo e derisorio, se non addirittura di esplicita ostilità, talvolta rasentante la persecuzione. "Passano gli austriacanti!": una frase umiliante che simboleggia il senso delle critiche rivolte ai nostri profughi per via del ‘Cimbro’, la lingua comunemente parlata dagli Altopianesi di allora, assai simile al tedesco e che lasciava supporre, oltre all’affinità di stirpe, anche un’esecrabile complicità col nemico. Questo diffuso sospetto, che rendeva ancora più penoso l’esilio, sembrava convalidato "da una campagna di stampa in atto già dagli inizi del conflitto che accusava la gente dell’Altopiano come favorevoli all’Austria’’. Persino sul "Popolo d’Italia’’, il giornale di Mussolini, non mancarono accenti ostili: "... Sputategli in viso... a quei tedeschi nostrani, italiani solo di nascita......" Fortunatamente ci fu chi non si stancò di difenderli appassionatamente, mitigando quanto possibile la durezza delle loro condizioni materiali e morali, prodigandosi per loro sia attraverso la stampa, ed è il caso del De Mori, giornalista e scrittore valentissimo, sia con la creazione di centri di assistenza e di istituti associativi, come ad esempio fece Don Giuseppe Rebeschini, definito "il padre dei profughi’’.